I primi istanti – fulminei – furono terribili. Noi cadevamo: il respiro ci mancava, il sangue pareva rifluirci tutto con un getto potente al cervello, sotto l’impressione indescrivibile dello sprofondamento....
Poi la nostra cesta-navicella ebbe come un attimo di arresto: quindi cominciò ridiscendere con minore velocità sebbene sempre rapidissimamente. Scivolavamo. Come in sogno avemmo l’intuizione che le pareti restringendosi formavano come una specie di guaina, lungo la superficie umida e viscida, per cui la nostra prigione di vimini scivolava trattenuta nella sua corsa fantastica verso l’abisso....
La situazione era pur sempre terribile, ma potevamo almeno respirare!
E come ci appariva eterna quella caduta!
I secondi erano secoli pel nostro cervello che pulsava spasmodicamente in quell’attimo indimenticabile di vita.
Sempre abbandonati l’un sull’altro sopra il fondo della cesta, noi sentivamo il reciproco battere tumultuoso dei nostri cuori e uno strano alito caldo, come di vapore, che avvolgeva le nostre tempie.
Ricordo che ad un certo punto una idea terribile attraverso il mio spirito.
Se il condotto si fosse all’improvviso ristretto tanto da non lasciar procedere la cesta e noi si rimanesse così sospesi sull’abisso, per sempre, sino alla morte per esaurimento!...
Giacchè in quel momento la morte prossima, vicinissima, imminente forse, era meno tremenda del pensiero di restare là, sospesi, per sempre, destinati ad un’orribile morte lenta, sentita minuto per minuto....
A questo nuovo terrore, dopo le rapide ma così spasmodiche impressioni di quei momenti, sentii un fiotto di sangue ottenebrarmi la mente. Le forze mi abbandonarono....
Caddi svenuto sul mio compagno.
Come ho detto, un vago ondulamento mi cullava dolcemente, mentre uno strano tepore pieno di benessere si diffondeva in tutte le mie membra.
Rinchiusi gli occhi istintivamente, quasi per non uscire dal dolce sogno che gravava sulla mia mente incerta e ottenebrata....
Ma ad un tratto sentii sussurrare all’orecchio il mio nome.
Apersi gli occhi, trasalendo.
*
Quando rinvenni, mi sentii cullato dolcemente, mentre un alito tepido mi sfiorava il volto.
Apersi gli occhi e scorsi chino sopra di me un volto ansioso e attento che riconobbi subito: quello di Edoardo.
Tentai di sollevarmi.
— Sei proprio tu? – mormorai.
— Sono io, – rispose la voce di Edoardo.
— Non sogno?... sono desto?... sono vivo ancora?... dove siamo?... – borbottai smarrito.
Mi stropicciai gli occhi, mi posi a sedere e mi guardai intorno.
Io vedeva chiaramente.
Intorno a me era una strana, sottile, luce diffusa, quale io non aveva mai veduta l’eguale.
Nella mia mente, ottenebrata ancora, si formulò vagamente l’impressione: una luce siderale, da astro, quale viene a noi nelle notti serene senza luna, dalle stelle lontane.
Questa luce avvolgeva tutto, come una diafana nebbia, sfumando i contorni delle cose. Io non distingueva nulla di preciso intorno a me: ma il volto di Edoardo emanava luce, il suo abito candido rifulgeva vivissimo.
— Dove siamo? – mormorai.
— Non so... – mi rispose la voce di Edoardo, – non comprendo.... galleggiamo!
— Galleggiamo?
— Sì, è ben acqua questa su cui ci sostiene la nostra cesta, trasformata in zattera.... sebbene mi abbia piuttosto l’apparenza di un vapor luminoso, di una nebbia di luce….
— Ah! – mormorai, guardando sotto di me.
— Ma guarda dunque.... che sottili bagliori.... che iridescenze di perla....
Ebbi la forza di abbassare una mano.
— È acqua, – mormorai.
— Ma questa luce?.... – disse Edoardo.
— Sarà la luna, – sussurrai.
— La luna?... – disse il mio amico. – Ah! Tu credi di essere ancora sulla terra?
— Come?
— Siamo sotto.... molto sotto....
— Sotto che cosa?
— Sotto terra!
— Sotto terra? che mai dici?
— Tu dimentichi dunque che siamo caduti.... sprofondati.... inabissati.... per quasi mezz’ora buona?...
Mi passai le mani sul volto, quasi per scacciarne le nebbie che mi offuscavano ancora la mente.
— Perdonami, amico mio.... lasciami riordinare le idee.... sono ancora tutto confuso....
— Me lo immagino bene.
Feci uno sforzo per riprendere possesso delle mie facoltà.
—Spiegami, dunque.... – mormorai, – fammi comprendere....
— Ma è chiarissimo! Noi siamo caduti.... sprofondati.... per quasi mezz’ora, t’ho detto! Ma siccome tutto ha un termine.... sulla terra e anche sotto, a quanto pare.... noi abbiamo finito per arrivare.
— Arrivar dove?
— Mah! è quanto io chiedo a te! Alla méta senza dubbio.
— È strano.
— Noi siamo caduti.... no, meglio, scivolati nell’acqua.... poichè questa è ben acqua.
— Senza dubbio.
— È forse, un vasto lago sotterraneo.... che probabilmente avrà pure le sue rive.
— Sarebbe da sperarlo.
— Intanto cominciamo a constatare che l’aria è magnificamente respirabile.... il che non è poco.
— È vero.
— Abbiamo anche una discreta illuminazione.
— Della quale non riesco a comprendere la fonte.
— Non importa, per ora. Con l’andar del tempo capiremo e scopriremo tutto.
— Tu hai l’intenzione a quanto pare di trattenerti un bel pezzo, quaggiù....
— Eh! Certamente.
— Tu dimentichi una cosa....
— Che cosa....
— Che noi siam perduti!
— Anche questo è vero.... e non lo nego affatto.
— Noi siam quaggiù.... in questo mondo misterioso.... così lontano dal nostro.... nelle viscere della terra!... il meno che ci possa accadere è di morir di fame, nell’attesa di sprofondar in qualche vortice che ci affretti la fine.
— Quanto dici è perfettamente logico.... ma non è men vera e logica un’altra cosa.
— Cioè?
— Che noi, pel momento almeno, nulla possiam fare per toglierci da questa situazione piuttosto.... imbarazzante! Non ti pare?
— Purtroppo.
— Dunque, mi sembra che la miglior cosa, sia....
— Continua.
— Lasciar fare al destino.
— Aspettare gli eventi!
— Proprio così.
— Non abbiamo del resto troppo larga la scelta.
— Tanto più che io sento vagamente....
— Che cosa?
— Che l’avventura non andrà a finir male!
— Cosa dici?
— Mah! non saprei. È come un misterioso presentimento.
— Sei un bell’originale.
— Ma è proprio così, amico mio. Ti ripeto che ho una vaga idea che la cosa non finirà tragicamente.
— Lo credi?
— Lo spero, almeno.
— Dio lo voglia.
— Lascia fare a lui. Non ti pare, del resto, che in tutto questo cumulo di cose vi sia come un misterioso filo fatale che ha guidato tutte le varie circostanze che ci hanno condotto a questo punto....
— Veramente, lo direi anch’io.
— Ma sì! L’eredità dello zio.... Saint-Malin.... il vecchio codice.... le postille.... la scoperta del foglio memoriale in parte indecifrabile.... il pozzo.... la fiaccola che incendia il cavo.... la caduta.... quest’acqua cheta....
— Sì, sì è vero. Si direbbe che il Fato abbia disposto le cose....
— È quanto penso io.
— Intanto vediamo di comprendere un poco chiaramente la nostra posizione.
— Noi siamo nelle viscere della terra.
— Di questo te ne sono io garante.
— Giacchè tu, durante la nostra caduta.... mentre durava il mio svenimento.... tu eri ben in sensi, non è vero? completamente sveglio?...
— Perfettamente padrone di me. Passato il primo momento di sbalordimento durante la caduta precipitosa della nostra navicella ora cambiata in comoda zattera, io mi sono reso lucidamente edotto di quanto avveniva. La cesta ha incontrato le pareti del tubo, lungo le quali è scivolata placidamente con rapida velocità ma tale da permetterci di respirare, (il che è stato anche agevolato dalla posizione che tenevamo). Lo scivolamento ha durato moltissimo – quasi mezz’ora, ho potuto in seguito calcolare – dopo di che siamo stati deposti dolcemente sul pelo di questa pacifica acqua la quale ci sta cullando già da un bel pezzo....
— E questa luce?
— Ecco. Dapprima i miei occhi non percepivano nulla. Io era sempre al buio. Poi, lentamente, la mia pupilla ha cominciato ad allenarsi, a distinguere un vago chiarore, ch’io paragonai sulle prime alla luminosità fosforica: e potei rendermi conto ch’eravamo sempre nella nostra cesta, che tu giacevi svenuto od addormentato sotto di me e che galleggiavano pacificamente.
— Ed è quando io ho ripreso i sensi.
— Precisamente.
— Sicchè, secondo te, quanto tempo è ormai che ci troviamo quaggiù?
— Un paio d’ore certamente.... difatti, osserva, – disse l’amico traendo il suo remontoir – sulla terra in questo momento sono le dodici e minuti.
— Tu parli già come l’abitante d’un altro mondo.
— Oh, è così lontana la terra ormai da noi!
— Mi vengono in mente le famose avventure di quei signori del Verne, in atto di passeggiarsene verso il centro della terra....
— Gli è che noi.... vi siamo realmente.
— E temo che vi resteremo.
— A dirtela, quasi mi dispiacerebbe....
— Che cosa?
— Uscirne tanto presto. Giacchè vi siamo....
— E tu speri di uscirne?
— Chi lo sa!
— Mi sembri troppo fiducioso, tu!
— E tu ti dispereresti?...
— Oh, no. Dopotutto!
— Dunque stiamo allegri.... e cerchiamo di trarre tutto il miglior partito dalla nostra, non nego, bizzarra situazione.
— Vediamolo.
— Cominciamo col fare l’inventario di quanto possediamo sopra le nostre rispettabili persone.
— Per parte mia, – dissi io, – i vestiti, un berretto da viaggio, un portamonete, ahimè! non troppo ben guarnito.... l’orologio.... un paio di lenti affumicate da sole.... il revolver carico di sei colpi.... un fazzoletto da naso.... e nient’altro. Ah! Dimenticavo il plaid, che è lì in fondo alla cesta.
— Benissimo. Io su per giù sono ricco come te.... con la differenza in meno che non posseggo lenti affumicate, e il vantaggio in più che posseggo il mio famoso scudiscio dal manico d’oro cesellato.
— Non c’è che dire.... non nuotiamo nell’abbondanza!
— Pare anche a me.
— In compenso un certo spirito.... non ci manca!
— Mancomale.
— Ma c’è un pensiero che non mi garba troppo.
— Parla.
— Che cosa mangeremo?
— Mah!
— Suppongo che in questo mare sotterraneo ci saranno dei pesci....
— Sarebbe da sperarlo, almeno.
— Troveremo bene il modo di pescarli!
— Ma gli è.... che sto constatando una cosa.
— Che mai?
— Che non sento affatto appetito.
— È vero. Anch’io.... non sento nessuno stimolo.
— E sono ormai parecchie ore che siamo digiuni!
— Il mio stomaco è saldo come un macigno.
— Così il mio.
— Che sia un effetto delle emozioni del nostro strano viaggio?
— Potrebbe darsi.
La nostra cesta trasformata in zattera – e d’ora innanzi la chiameremo sempre in tal modo – continuava sempre a dondolarsi placidamente in quel mare che i nostri marinai avrebbero detto «quieto come l’olio».
A un tratto Edoardo si frugò nelle tasche, ne trasse un pezzo di carta, che lasciò cadere nell’acqua. Dopo qualche istante la carta era lontana da noi.
— Ci muoviamo.... meno male, – esclamò.
—Sì, – ripetei io, – quest’acqua non è immobile.... e questa è per noi una fortuna! noi ci muoviamo.... la corrente, per debole che sia, ci trasporterà da qualche parte.... Il terribile sarebbe di dover morire così, nell’inerzia completa, nella quiete assoluta!...
E così noi parlavamo di morire: con la massima calma e tranquillità!...
— Taci, – gridò Edoardo, – qualcosa mi dice che la corrente si accentua.... noi procediamo con maggiore velocità.
— Bene, – mormorai.
Difatti tutto ce lo faceva comprendere.
Intorno a noi era la bianca luce diffusa, mite ed eguale: sotto la nostra zattera scintillava l’acqua limpida, irradiata dalla bianca luce che ne circondava.
Ad un tratto Edoardo, che teneva sempre gli occhi fissi sopra l’acqua. gridò:
— Un pesce!
— Dove?
— Vedilo là che si dilegua!
— È vero.
— Eccone un altro.
Come un sottile nastro candido e spieghevole era passato sotto i nostri sguardi.
— È il Proteo, l’abitator de’ silenziosi laghi sotterranei, – disse Edoardo.
— Mancomale! non siamo più soli!... Qualche essere vivente divide la nostra sorte in questo misterioso mondo che ancor non conosciamo!
— Dunque qua si può vivere.... almeno fino ad un certo punto!
— E ciò è già qualche cosa.
Restammo qualche istante in silenzio.
Edoardo pareva immerso in qualche sua astrusa speculazione. Io mi guardava intorno.
Nessun segno di vita ai lati o di vôlta sopra la nostra testa.
Solo il solito lene chiarore fosforico che pareva partire così dall’aria che ne circondava, come dall’acqua sotto di noi, dai nostri corpi, dalla zattera....
Ad un tratto Edoardo, come continuando il suo interno ragionamento, riprese a parlare:
— Noi dunque camminiamo.
— Sì, – feci io.
— Sta bene.... E il moto non è la morte.... generalmente è la vita. Perciò, speriamo.
Lo guardai senza dir nulla.
Veramente v’era molto da sperare, a quella po’ po’ di profondità sotterranea, sperduti in quel mare misterioso di cui non conoscevamo nè l’ampiezza nè i confini!...
Però non volli togliergli l’illusione della sua speranza.
A che pro’ dopo tutto!...
Intanto egli continuava:
— Sì, poichè la temperatura è dolcissima quaggiù... che dico? quasi calda! non ti sembra?...
— Sì, è vero.
— Ebbene, – esclamò egli trionfante, – ascoltami.
E dopo avermi fissato qualche istante egli riprese:
— Eccoti la ragione del fenomeno luminoso che ne circonda. Tu sai che in natura non esiste quiete perfetta.... ovunque è moto, giacchè moto non è solo il manifestarsi della natura stessa ne’ suoi fenomeni.... ma benanche il suo modo di essere. Mi comprendi?
— Perfettamente.
— Ora il moto della materia – moto molecolare – essendo il generatore del calore a noi sensibile, o meglio, moto essendo calore e il moto, come sai, moto essenziale della materia; in ogni luogo ove esisterà materia, sarà calore, non potendo esistere moto senza calore nè materia senza moto.
— Ciò è noto.
— Avverrà dunque che tutti i fenomeni che innalzano il calore ad una data temperatura sono sempre causa di produzione di maggior o minore vivida luce.
— È evidente.
— Ma quand’è che questa luce comincia ad esistere? Per noi, risponderò, essa comincia ad esistere dal momento che riesce sensibile alla nostra vista.... ma in realtà essa è già qui da tempo che non conosciamo; in modo, s’intende, così debole da non essere percepibile dai nostri sguardi. Ora non è da supporre che anche il minimo grado di calore sia causa produttiva di luce? luce magari così tenue da essere totalmente insensibile alla nostra vista terrestre abbagliata dagli intensi raggi solari?
Edoardo s’arrestò un istante, quindi riprese sempre più infervorandosi:
— Sono forse più sensibili alla nostra vista limitata tutte le infinite fosforescenze che trovansi in natura? È percettibile ai nostri miseri sguardi, quand’essi sien colpiti d’altra luce, sia pur quella d’un modesto fiammifero, la fosforescenza del fosforo che pure appare così vivida nell’oscurità? Non avviene forse lo stesso nelle ore diurne pei vaganti fuochi fatui?...
— Giustissimo. E che ne concludi?
— Ne concludo che a noi, viventi sulla nostra terra sempre circondati da una luce vivissima, riesce incomprensibile l’esistenza di altre luci tenui e sottili. Per noi è profondo mistero la vita delle tenebre E pure chissà qual vita freme e s’agita in esse! Lo dicon i suoi minimi abitatori, piccoli insetti candidi e brillanti come argento, pesci rosei e trasparenti come quelli che hai visto poca’anzi trasvolare sotto i nostri occhi! Riassumendo: se in ogni luogo è moto e se ogni moto è fonte di calore, e il calore essendo luce, le tenebre più non esistono. Ogni cosa creata manda il suo raggio luminoso, esse tutte vibran di propria luce.... Tu conosci gli studi del barone di Reinchenbach?
— Alquanto....
— Tu ricordi tra i tanti fatti ch’egli racconta quello dell’ufficiale tedesco che trovandosi ammalato verso il 1850, in una notte oscurissima, non potendo dormire si accorse con sua grande meraviglia che tutti i corpi di metallo che trovavansi nella sua camera, come i cardini delle porte, le guarnizioni metalliche del canterano, apparivan visibili. E constatò che essi mandavan un debolissimo bagliore tale che li faceva apparire come cose lucenti di per sè. Lo scienziato, fatto tesoro di questo e d’altri fatti venuti a sua cognizione, dopo esperienze delicatissime, trovò per l’appunto che ogni corpo in virtù della propria dinamica molecolare è luminoso di luce propria – luce che se non è a tutti sensibile è chiaramente percettibile ad una classe d’individui, dotati di una sensibilità delicatissima, da lui chiamati per l’appuntosensitivi. Con l’aiuto di questi venne a formulare la sua teoria come ogni manifestazione di calore e di elettricità dia sempre luogo a luce,e come tutta la materia sia per propria virtù luminosa – e luminosa di una luce che varia d’intensità e di colore a seconda dei corpi. Così egli trovò poco luminosi i corpi fibrosi, come il cotone e il legno; più luminose le pietre e luminosissimi di luce candida i cristalli naturali, come il gesso, il quarzo, ed i metalli i quali poi emanano ciascuno una luce differentemente colorata: rosso incandescente il rame, turchino la stagno, il piombo ed il palladio, bianchi candidi l’argento, l’oro il platino, il cadmio, rosso l’arsenico.... Fu Federico Weidlich, amico mio, un invalido marinaio che nel febbraio del 1846 in una seduta del gabinetto oscuro del barone Reinchenbach, dopo molte ore di permanenza nella perfetta oscurità, scoprì come ogni corpo sia luminoso di luce propria e di diverso colore a seconda della sua composizione. E il geniale scienziato dette a tale luce, tu lo sai, il nome di luce Od, facendo derivare dalla parola teutonica Wotan (che significa idea di cosa tutto penetrante) e da Odin, la famosa deità Germana.
— Ora dunque, – concluse Edoardo, – ogni cosa splende di propria luce e se il sole emana una luce intensissima, anche il nostro globo è intimamente tutto luminoso di una tenue e sottile luce, e noi stessi siamo centro di luminosità, giacchè una candida e direi vaporante luce si sprigiona da ogni parte del nostro corpo. Quindi non più tenebre! ovunque luce! E noi sprofondati ne’ più misteriosi recessi delle viscere terrestri, noi ci ritroviamo ora in un nuovo mondo di luce, ove ogni cosa, ogni roccia, l’aria istessa risplende di una strana luce per noi ignota, noi accecati sulla terra dalla bruciante luminosità del grande astro che ci abbarbaglia!