All’improvviso gettammo un grido di meraviglia.
Il corridoio, a vôlta, nel quale la nostra zattera, portata dalla corrente era corsa sino a quel momento, era sboccato in un vastissimo lago, di cui vedevamo le sponde piene di grandi boschi – è la vera parola – di bizzarri alberi mai veduti. E fra gli alberi candide cupolette, snelle e bellissime, mettevan la loro vivida luce nella nebbia fulgente che tutto irradiava intorno: le acque chete e terse del lago, le sponde, gli strani boschi che ho detto.
— Siamo in un mondo popolato – gridò Edoardo!
— Ed ecco le case degli strani abitatori, – risposi, accennando le bianche cupolette.
Ci arrestammo un istante a contemplare rapiti il magico spettacolo che ci si schiudeva dinanzi.
Le onde leggere, piene di riflessi di perla, vagamente increspate, andavano a baciare le rive piene di luce, morendo sulla fine sabbia fatta di minuti brillanti.
Lo sguardo correva invano a cercare un confine su quelle rive popolate di boschi e di bianche cupolette: la placida distesa si prolungava infinita, senza orizzonte, perdendosi nella luce, davanti ai nostri occhi abbagliati.
— Dove siamo? dove siamo? – mi chiedevo io smarrito.
— In uno strano mondo di cui i nostri fratelli lassù mai hanno sospettato l’esistenza, – rispondeva Edoardo.
Restammo alcun poco così, finchè Edoardo disse:
—Cerchiamo di approdare.
Lo guardai:
— Ma come?
Difatti la corrente spingeva la nostra zattera al largo.
— Abbandonando la nostra zattera....
— A nuoto?
— Sì, affidandoci a quest’acqua così pura e tranquilla. In due minuti saremo a riva.
— Dici bene, – mormorai, – tentiamo.
Ormai io agiva come in sogno, o meglio, come un allucinato.
— Togliamoci le giubbe per essere più agili, – disse ancora Edoardo.
Ci togliemmo le giubbe, ne facemmo un piccol fagotto che ci assicurammo sul dorso, io con le cinghie dei calzoni ed Edoardo con una funicella ch’era riuscito a trovare nelle tasche, e ci affidammo alle onde del meraviglioso lago.
Che deliziosa frescura!
Le nostre membra arse dalla natural febbre che ci aveva presi per le inaudite commozioni che da parecchie ore ormai stavamo affrontando, provavano in quel fresco, dolcissimo bagno, un refrigerio indefinibile.
Come un nuovo ardente vigore si accese in tutte le nostre membra: e movendo le braccia e i piedi ci trovammo a guizzare in quelle fulgide acque come uno di quei lunghi nastri luminosi – le strane anguille che ho detto – che la nostra presenza faceva fuggire spaventati.
In pochi istanti fummo vicino alla riva.
Man mano che ci avvicinavamo, lo spettacolo si faceva più limpido e meraviglioso.
I boschi di cui eran popolate le rive si facean più grandi e rivelavano ai nostri sguardi stupiti strane forme mai vedute, bizzarri fiori mostruosi, mentre un vago olezzo indefinibile ci veniva, a tratti, a colpire le nari.
— Orsù, – borbottò Edoardo, – due buoni colpi di braccia e tocchiamo terra.
Abbassammo lo sguardo e via.
Eravamo nulla spiaggia.
Era deserta.
Sopra la nostra testa pendevan i rami – se così potevamo chiamarli – di un intricato boschetto di enormi licheni d’argento luminoso.
La sabbia, sotto i nostri piedi, avea la morbidezza d’un velluto e il fulgore di uno scrigno di gioielli.
— Orsù, – disse ancora Edoardo,— ora ci siamo! e cerchiamo di capir qualcosa.
Ci rassettammo alquanto, rimettemmo le nostre giubbe, e, sebbene bagnati e gocciolanti da capo a piedi, ci sembrammo abbastanza in assetto da tentar l’entrata solenne nell’incantato paese nel quale stavamo per fare, certo non aspettata, apparizione.
Uscimmo da sotto il cespuglio che aveva protetto il nostro approdo e ci avviammo.
Sotto i nostri piedi continuava la sabbia preziosa e morbida e sulla testa ci pendevano sempre i più strani festoni di fronde che mente bislacca di ornamentista del seicento avesse mai potuto fantasticare.
Camminammo alquanto così, finchè un chiarore più intenso ci fe’ accorti che ci avvicinavano ad una delle cupolette che già avevamo scorte dalla nostra abbandonata imbarcazione.
Difatti, pochi passi ancora, e ci trovavamo davanti alla rilucente massa di una specie di tempio, fornito d’un’alta porta ogivale, chiusa da una breve tenda d’un tessuto finissimo che pareva seta od amianto.
Ci arrestammo davanti ad essa.
Confesso che in quel punto il cuore mi batteva precipitoso, e anche Edoardo era assai commosso.
Noi stavamo per vedere, per conoscere, per parlare forse ad una delle strane creature – uomini o spettri? —abitanti quel fantastico mondo nel quale, non sapevamo ancora se per caso o per supremo volere, eravamo penetrati.
Fra pochi istanti, certamente, il mistero di quel mondo stava per esserci rivelato….
La nostra commozione era dunque più che giustificata!...
Fattoci coraggio, ci appressammo alla porta ed Edoardo sollevo la cortina.
Una bianca figura inginocchiata ci volgeva le spalle.
Pareva in atto di profonda preghiera e di raccoglimento.
Edoardo fe’ una voce.
La figura si volse e noi scorgemmo una veneranda figura di vecchissimo, dalla lunga barba bianca come neve e dalla fronte incorniciata di capelli di argento.
Egli ci guardò un istante – e mai oblierò quello sguardo profondo – e quindi, alzatosi sull’altissima persona, venne verso di noi.
Era tutto involto in un manto bianchissimo dell’istessa stoffa di cui era fatta la cortina che ho detto – e spirava una grande e strana maestà dal volto severo ma pieno di dolcezza.
Ci guardò un istante, scorrendoci curiosamente con l’occhio tutta la persona, meravigliato certamente dalla novità per lui del nostro abbigliamento.
Poi aperse bocca e parlò.
Una voce profonda e dolce – d’una strana dolcezza a noi ignota – e un linguaggio a noi sconosciuto, ma di cui avrei giurato di aver nella mente come una strana, vaga eco lontana.
Attese un istante, forse la nostra risposta.
Poi compreso il nostro silenzio sorrise dolcemente e raccogliendosi alquanto riprese a parlare.
Questa volta sobbalzai.
Egli si esprimeva in latino!
Il purissima latino di Virgilio e di Catullo, con uno strano, dolcissimo accento, ben lontano da quello ch’eravamo soliti sentir nelle nostre scuole, studenti.
Egli chiedeva:
— Chi siete voi? che volete?
Risposi io nel mio povero latino:
— Padre.... – ed egli ci sorrise benevolo, – non è per nostra volontà che noi ci troviamo qua, presso di voi....
Egli attendeva pazientemente.
— Noi siamo smarriti, quaggiù.... poichè siamo caduti, senza volerlo, dalla Terra....
— Dalla Terra?... – disse egli. E parve rimaner pensoso.
Poichè non accennava a dire altro, io ripresi:
— Sì, dirò anche meglio dalla superficie della Terra, luogo pieno di esseri come vedete noi, luogo che forse a Voi, creatura appartenente a quest’altra per noi misteriosa e sconosciuta plaga, è forse del pari ignota....
Il vecchio m’interruppe.
— T’inganni, o straniero, io conosco, io so che esiste altrove – dove? non so bene – ma che pur esiste un altro luogo oltre questo ove ora vi trovate, pieno di uomini come voi e noi.... Io so questo perchè i nostri Maestri ce l’hanno insegnato e noi l’insegniamo ai nostri figlioli....
— I vostri figliuoli? avete voi dunque dei figliuoli?...
Il vecchio mi guardò stupito, poi sorrise.
— Voi non sapete dunque proprio nulla di noi?...
— Di voi? ma di quali voi?... – mormorò Edoardo, – se finora non abbiamo veduto della preziosa razza alla quale appartenete che il vostro solo esemplare!...
L’amico Edoardo aveva detto ciò in buon francese.
E pure il vecchio sorrise ancora, mostrando di avere perfettamente compreso, e articolò in un francese molto stentato e... dirò così, affatto sotterraneo:
— Voi siete dunque francesi?
— Ma come? – gridammo al colmo dello stupore, – ma parlate ora anche il francese? diamine! siete poliglotti, quaggiù!...
— Via, – esclamò Edoardo, – spiegateci qualcosa, caro Padre, di questo vostro strano mondo così lontano dal nostro e dei suoi abitatori.
Il vecchio abbassò bene la tenda che chiudeva l’ingresso del piccolo edificio, che compresi essere un piccolo tempio, una cappella; ci invitò a sedere sopra certi soffici cuscini d’un leggerissimo tessuto pari a quello della tenda e così cominciò a parlare:
— Vi prego anzitutto di dirmi in qual modo vi troviate voi ora qua, tra noi.
Il più brevemente che mi fu possibile gli feci note tutte le nostre peripezie.
Il vecchio mi ascoltò grave, attentissimo.
Poi cominciò:
— Dunque i nostri vecchi Maestri non fallivano parlandoci delle lontane plaghe che chiamansi Terra! Ma presto saprete tutto, anche voi. Voi dunque, figliuoli miei, voi siete ora nel nostro cosmo, che noi indichiamo con una parola che tradotta per voi vien a dire “Il paese della pace”. Il nostro paese non è vasto, e noi lo conosciamo quasi tutto. – Quasi tutto, ho detto: non tutto, ch’è cinto all’intorno da profondi e spaventosi abissi ove nessun di noi ha mai osato avventurarsi. Voi, forse, venite da uno di codesti abissi! Quel poco del nostro paese che conosciamo è piano e tranquillo: ed è corso da un gran fiume, dalle acque sempre limpide e correnti, che mette capo ad un grande lago, alle cui rive è posto il nostro ricovero di ora. Quattro villaggi son bagnati da questo lago, bello veramente e grande, come avete veduto e vedrete. Essi contornan Komokokis, la nostra città santa. E Komokokis vuol dire “il palazzo della pace suprema”. Ed essa alberga nel suo palazzo di cristallo lucente il nostro sommo Padre, che è poi anche il nostro Capo. Intorno a lui siedono dodici vecchi venerandi e sapienti i quali insegnan ai giovani la saviezza e ci consiglian tutti nelle vicende del nostro vivere. È fra i dodici sapienti uno che ci ha insegnato a parlare la lingua di Roma, com’egli la chiama, e ci ha narrate le gesta dell’immensa città del vostro mondo che sembra aver lui conosciuta. Egli ha insegnato anche la lingua che ora voi avete adoperato – e ci ha detto del potente paese che voi chiamate Francia. – Egli deve conoscer bene la vostra Terra, ma sembra tutto non voler dire di ciò ch’ei conosce.... e noi non sappiamo di più.
— E voi chi siete?
— Io sono un vecchio padre che, giunto al termine della mia lunga opera di vita, vengo sovente qua in questo nostro Tempio a pregar Colui che tutto può, che è poi Colui che ci accoglierà quando chiuderemo gli occhi al riposo....
Noi eravamo sbalorditi.
Il vecchio ragionava, su per giù, come un uomo qualunque della Terra.
Egli parlava latino, francese, sapeva la storia di Roma – il che non sanno tutti gli abitanti, su, della Terra – e credeva e adorava Dio!..
Intanto un’idea s’era formulata nella mia mente.
— Voi dovreste, – dissi, – condurci dal sapiente che ci avete detto....
— A Komokokis?...
— Sì.
Il vecchio pareva titubante.
— Non è in vostro potere? – chiese Edoardo.
— Sì.... ma temo per la quiete de’ nostri giovani figliuoli, – soggiunse egli, – il condurvi così.... in mezzo ad essi.... così, come siete....
Compresi.
Dovevamo veramente essere ridicoli e attirar davvero l’attenzione con quei nostri abiti che il bagno nel lago avea reso aderenti alle membra!
E intanto notai tra me come il buon vecchio si preoccupava della quiete de’ suoi giovani figliuoli, in procinto di essere turbata dalle nostre figure eteroclite.
— Ci sarebbe un mezzo, – osservai, – cioè che ci aiutaste a vestirci alla vostra foggia....
— Oh sì, – rispose il vecchio. E andato ad un piccolo armadio posto nella parete del Tempio ne trasse due paludamenti bianchi simili al suo e ce li offerse.
Noi ci avvolgeranno in essi, cercando d’imitare il vecchio.
— Io vi guiderò dunque a Komokokis, – disse egli, – e parlerete al Sapiente. Credo anch’io che sia bene ciò. È a lui che sa tutto.... che voi dovete essere condotti.
E fattoci cenno di seguirlo, il vecchio alzò la tenda e uscì.
Noi lo seguimmo.