Strano paese e più strani abitatori!
Man mano che procedevamo noi passavamo di meraviglia in meraviglia.
In mezzo a due fitte siepi degli strani arbusti che ho già tentato di descrivere – pari ad enormi piante di lichene, dalle bellissime foglie corinzie d’una eleganza e elasticità di volute da far delirare un ornamentista dello stil novo – sorgevano le bianche casine, naturalmente risplendenti, tutte foggiate a forma di cupola. Intorno ad esse prosperavano altre più bizzarre e fantastiche piante mai vedute e sbocciavano certi meravigliosi fiori che solo in sogno si posson immaginare.
Sottili ombrelline trasparenti e d’argento, bocciuoli candidi dai riflessi di perla, certi grossi fiori dai petali di neve, risplendenti come stelle, grappoli di diamanti intensi o di zaffiri delicatissimi; e ciuffi di steli variopinti, dal roseo più tenue e ideale al verde dello smeraldo più intenso, dal berillo più terso al rosso corruscante come un rubino acceso.
— Toh! – esclamò ad un tratto Edoardo al mio orecchio, contemplando anche lui pieno di stupore e d’animazione la fantastica flora, – mi viene un’idea. Sai che mi fan pensare queste strane piante? all’effetto che fa la muffa veduta al microscopio.
— È vero, – esclamai, – è proprio così!
Difatti tutti sanno quale attraente spettacolo producano pochi millimetri quadrati di muffa veduta al microscopio.
È una vera fantasmagoria di steli dai colori vividi e pittoreschi, di magnifici fiori a stella, un intreccio di sottili rami dall’aspetto il più vago.
Tale appariva a noi la flora che ne circondava.
Sopra ad essa poi volteggiavan le più meravigliose farfalle che mente di poeta possa sognare: larghi fiocchi di neve luminosi, batuffoli di seta rosei, cilestrini, d’un sottil grigio venato di azzurro, di un bianco latteo cosparso di piccoli diamanti sprizzanti luce.
Poichè la luce era sempre e da per tutto! La luce era padrona di ogni angolo di quel mondo meraviglioso, la luce compenetrava ogni cosa, – tutto parea fatto di luce – era essa l’essenza, l’anima di ogni pianta, di ogni creatura vivente: ogni granellino di sabbia rifulgeva nell’aria istessa!
Come ho detto, questa luce s’era fatta padrona dei nostri corpi stessi, e io vedeva partir dalle mie dita un sottil bagliore diffuso che m’empieva di meraviglia – così tutto il corpo del mio amico era luminoso – e il vecchio candidissimo, che ne guidava in quel regno dello splendore, rifulgeva tutto dalla testa ai piedi.
E cominciammo a vedere gli abitatori di quella plaga meravigliosa.
Essi eran tutti bianchi, d’una bianchezza abbagliante, come la nostra guida.
I capelli color di neve che noi avevamo in questi, attribuito alla vecchiaia, eran invece cosa generale per tutte le altre creature di quel mondo sì nuovo per noi. Giovani, vecchi, donne, fanciulli ci apparivan involti nel lungo mantello dell’istessa delicatissima stoffa che nascondeva noi ai loro sguardi ignari. Molti di essi avean la testa e il volto scoperto: e noi vedevamo le bianchissime fronti circondate da un’aureola rifulgente di chiome di neve.
Passavano vecchi gravi, dall’aria serena e dallo guardo profondo; giovani snelli, dalle agili forme che s’indovinavan perfette, sotto il leggerissimo manto; donne e fanciulli d’una bellezza di sogno.
Tutti procedevan composti, scivolando quasi fra gli arbusti e le piccole case, occupati, si vedeva, ciascuno a qualche particolar loro méta.
Molti raccoglievan alcuni ramoscelli di una delle piante che ho detto – le stesse che suscitavan a noi l’idea di grossi licheni – e le portavan alla bocca.
Pensando, – e come in seguito seppi, non m’ingannavo – che fosse un loro particolar nutrimento, passando vicino ad uno di quegli arbusti ne spiccai una foglia e provai a masticarla.
Avea un saporino amarognolo non dispiacente – ma, mentre stava assaporandolo, sentii uno strano fenomeno avvenire entro di me. Come un senso, non saprei, di inatteso vigore, di esuberanza di vita parve corrermi tutte le vene: era come l’impressione che si prova ingoiando un liquore fortissimo e corroborante in un momento di sfinitezza.
Un nuovo ardore, una forza, una gagliardia novella s’impadronì di tutte le mie membra: una limpidezza acuta, che non riesco ad esprimere, si faceva padrona del mio cervello, mentre un ignoto senso di benessere, di gioia, di sicurezza superba, che non so dire, si spandeva dal cuore per tutto il mio essere.
Feci noto ad Edoardo quanto avveniva: ed anche lui volle tentare la prova.
Dopo un istante vidi i suoi occhi animarsi, e compresi che anche in lui stava avvenendo lo strano fenomeno che ho detto.
— Hai ragione, – mi mormorò sottovoce.
— È provvidenziale, – esclamai, – poichè noi, che ormai abbiamo perduto nozione del tempo, siamo perfettamente digiuni da molte ma da molte ore!...
— È vero, ed io stava appunto pensando da qualche istante com’è che nessun sintomo di debolezza ci avesse ancor assaliti....
— Ciò sarà forse dipeso dallo stato di eccitazione nervosa in cui il nuovo stato ha gittato il nostro organismo.
— Non potrebbe anche darsi, – mormorò Edoardo, – che questa strana atmosfera contenga in sè un bizzarro principio.... dirò così, nutriente?... Giacchè è impossibile che, dopo tante ore di digiuno, malgrado tutte le emozioni che dici, il nostro stomaco non si sia risentito in qualche modo, e non abbia ancora avanzate le sue pretese....
— È vero, e forse hai indovinato, – risposi.
— In ogni modo ecco un cibo economico e che.... fa bene il suo dovere, – concluse Edoardo, osservando i grossi arbusti che ho detto e che sorgevano da ogni lato.
La nostra guida intanto procedeva sempre in silenzio, davanti a noi.
Stesi la mano per abbrancare un altro dei preziosi ramoscelli, quando il vecchio, voltosi a me, mi disse:
— Basta, ora.
— Perchè? – esclamai meravigliato.
— Perchè ilKamsiki il quale dà la vita e la gioia, dà la morte più nera la seconda volta.
— Non comprendo.... – mormorai.
Il vecchio posò una mano sulla mia spalla e si contentò di rispondere:
— Il Maestro al quale ti conduco t’insegnerà tutto... anche questo.
— Sta bene, – risposi, – ne ho proprio il più vivo desiderio... poichè in questo vostro strano mondo finiremo per fare qualche grosso sproposito che ci può costar caro, lo sento.
— Sicchè se noi avessimo masticato altre foglie di questa vostra pianta.... come la chiamate.... noi saremmo morti?... – domandò Edoardo.
— Il Maestro v’insegnerà, – si contentò di rispondere la nostra vecchia guida.
Comprendemmo ch’egli avea poca voglia di perder tempo a discorrere con noi e lo seguimmo in silenzio, osservando stupiti e meravigliarti ciò che si svolgeva sotto i nostri occhi.
Il terreno s’andava man mano elevando, e noi andavamo costeggiando sempre le rive del lago, sul quale invano io cercava con gli occhi traccia d’imbarcazioni. Il paesaggio era sempre lo stesso: grandi cespi della pianta che ho detto, circondata da miriadi di altre piccole e svariatissime creature vegetali. Qua e là s’aprivano come delle vallette di luce: altrove s’alzavan dei monticelli coperti di fiori, e questi eran veri alveari di farfalle e d’insetti luminosi.
Ad un certo punto la strada parve scostarsi dalle rive del lago, essa prese lungo una curva, s’addentrò fra due alte siepi che nascondevan la vista del di fuori; continuò così per un bel pezzo finchè s’aprì davanti ai nostri occhi una vasta spianata, in fondo alla quale, verso il lago, come in una vaga nebbia luminosa, mi parve scorgere un complesso di case.
— Komokokis? – chiesi.
— No, quello è Kamaka, uno dei quattro villaggi che fanno corona alla “città della pace suprema”, – si degnò rispondere questa volta la nostra poco ciarliera ma paziente guida.
E continuammo il cammino.
Passavano vicino a noi tratto tratto uomini e donne, con quella loro bizzarra andatura, lieve ed evanescente quasi, che parea sfiorare appena il suolo.
E cominciai ad osservare come generalmente parlassero pochissimo, e con voce poco alta. Quando riuscii a coglier qualche parola del loro linguaggio mi colpì la straordinaria dolcezza di esso, che risvegliava nella mia memoria il ricordo di suoni già noti, quasi perduti nella nebbia di un passato lontano ma vagamente ancor vivo nella mia coscienza.
Edoardo aveva consultato già parecchie volte il suo orologio, e supposi che andasse cercando di ricostruire il tempo da che eravamo in questo nuovo mondo.
— Non comprendo, – lo sentii mormorare più volte.
— Che ti succede? – domandai.
— Gli è che questo benedetto cronometro si deve essere fermato.... proprio sul più bello! Ed in conseguenza, ora, buona notte!
— Ahi! temo molto che non ti sarà tanto facile trovare un orologiaio quaggiù da fartelo accomodare, – osservai.
— Lo temo anch’io, – rispose Edoardo.
E filosoficamente ripose nel taschino il proprio cronometro, divenuto ormai perfettamente inutile.
— Del resto, – disse egli, – è del tutto vano preoccuparsi delle ore, quaggiù....
— Perchè?
— Perchè qui non esiste che un’ora sola, – continuò.
— Difatti non c’è differenza fra il giorno e la notte.
— Giacchè è sempre giorno.
— O sempre notte, secondo vuoi chiamarla.
— Proprio così.
— Rimpiangeresti, forse, le nostre belle notti.... parigine?
— Pel momento, non ancora.... più tardi, forse, non so!
— Finora la nostra curiosa avventura non ha ancora nulla di spiacevole....
— Tutt’altro!
— Ci siamo liberati prima di tutto da quel seccatore di Jean Bonnin....
— Abbiamo soppresso le spese direstaurant....
— E quelle del gas!
— Verissimo. Aggiungi un’escursioncella che sfido i più audaci sportsman avere mai tentata....
— Siamo in procinto di entrare a Komokokis....
— Il paese della pace perfetta.
— Purchè non sia tanto perfetta da divenire.... eterna!
— Che voglian ridurre noi alla quiete.... perfetta, vuoi dire?
— Non credo. Questi Komokokis mi sembrano buona gente.
—Tutto almeno lo farebbe sperare.
— Che ne concludi?
— Che sarebbe ora di essere arrivati.
Noi avevamo parlato a bassa voce, fra noi. Pure la nostra guida, sebbene ci precedesse di parecchi metri, rispose, come se avesse udite le nostre parole:
— Komokokis difatti non è lontana.
Lo guardammo stupefatti.
— Si direbbe che sentano senza.... ascoltare, come forse vedono senza.... guardare!... – mormorò Edoardo.
— Forse, può anche darsi questo! – non potei a meno di esclamare. – Tutto può avvenire da qualche ora o giorno, chi lo sa bene? – per noi. E la miglior cosa è di cominciare a non meravigliarci più di niente! Ti pare?