X.

Gerolamo Cardano – uno di quei pazzi bizzarri e geniali, nella sua stramba originalità, prodotti del seicento – il secolo dei pazzi e dei genii che prepararono le nostre conquiste nella Scienza moderna – Gerolamo Cardano, in una delle sue folli allucinazioni notturne, durante le quali conversava con gli spiriti della Luna e con altri abitatori di mondi ignoti, assicurava d’aver avuto cognizione di certe misteriose creature bianche come la neve e tramandanti luce che venivan a lui e sparivan negli abissi.... Quali abissi? Il grande matematico e il più grande ancora allucinato non lo sa dire.

I modesti e laboriosi minatori del nord narrano una loro ingenua e gentile leggenda.

Essi dicon che le caverne son popolate di Coboldi, ossia genii delle miniere, uomini buoni e amici de’ poveri minatori, pe’ quali dispongon in lunghi filoni i metalli ch’essi poi scaveran con le picche. Talvolta que’ buoni genii raccolgon anche le pietre preziose che poi incastran nel duro sasso per far felici gli affaticati lavoratori delle viscere terrestri. Sono essi che vanno a prendere negli abissi, ove il sole mai non arriva, i diamanti che mandan luce nelle tenebre, i rubini, gli smeraldi, o le pallide ametiste e gli ardenti zaffiri per arricchirne le vene delle montagne....

E come queste, molte altre leggende sugli abitatori de’ tenebrosi recessi del globo io e il mio amico Edoardo ricordavamo.

Ma come lontane tutte dal meraviglioso mondo ignoto che ci si apriva dinanzi!...

Noi ricordavamo le descrizioni e gli studi fatti sulle celebri caverne; le indagini, le induzioni, le conclusioni a cui eran venuti i geologi e i naturalisti sulla fauna e sulla flora studiata nelle profondità sconosciute della caverna del Mammuth nel Kentucky degli Stati Uniti, in quella di Trebik presso Trieste e in molte altre.... Ma tutto quello noi vedevamo sconvolgeva le nostra cognizioni in proposito.

Tutto ci appariva nuovo, differente, lontano, da ciò che sapevamo, da ciò che ci avevano insegnato e s’insegnava lassù, sulla nostra Terra.

Leggi nuove – non contradicenti quelle note e sacrate ormai dalla verità della Scienza – ma continuate, applicate, venienti a conclusioni per noi inaspettate e bizzarre.

E analizzando io e il mio amico, quanto venivamo conoscendo, quanto ci appariva sotto gli guardi meravigliati, noi non potevamo a meno di coordinare tutte quelle nuove cose ad antiche tradizioni, barlumi quasi delle misteriose verità a noi ora presenti, trapelate chissà quando e in qual modo, nelle tenebre dei tempi, alla sapienza degli uomini....

Kromokokis, il regno sotterraneo, nel quale eravamo penetrati, non era molto vasto: almeno, intendo, la parte animata da esseri viventi. Chè, la specie di bassopiano nel quale si raccoglieva il grande lago che il lettore conosce, e alle cui rive erano i quattro villaggi e la città sacra, che faceva da capitale, per esprimerci con i termini del nostro.... nuovo mondo, il bassopiano abitato, diceva, era circondato a volta da spaventevoli abissi inesplorati, tutti orridi picchi aguzzi e scabrosi, nel cui fondo scorrevan precipitosi torrenti de’ quali nessun conosceva la fine.

Qualcuno, forse, di essi combinava con gl’innumerevoli baratri e abissi, de’ quali agli uomini non è stato possibile esplorare il fondo, che s’apron qua e là, un po’ da per tutto sulla superficie della Terra?... Il dubbio non era del tutto assurdo. Solo nella grotta che ho ricordato del Mammuth, per non dire di altre moltissime, parecchi sono i tunnels verticali, a zig-zag che si vanno a perdere, senza fondo, nelle viscere della terra.

La plaga abitata, dunque, di quel bizzarro regno che dalla loro città santa prendeva il nome di Komokokis “il paese della pace perfetta” non era molto vasta.

Nè noi nè Kalika potevamo farci un’idea topografica esatta della giacitura di essa, sotto ai paesi corrispondenti dell’Europa: non avevamo nessun istrumento adatto per calcolarla; nè la struttura delle rocce poteva dirci nulla. Quando si pensi che il tragitto da noi percorso in zattera nel fiume che sboccando nel lago ci aveva condotti in Komokokis era durato un tempo che a noi era stato impossibile valutare, si può asserire che noi eravamo perfettamente disorientati. Certamente dovevamo essere sempre sotto l’Europa: se più verso il Sud o il Nord dal punto ove eravamo discesi, questo a noi era perfettamente ignoto.

Gli abitanti di tutta quella plaga felice e serena, non soggetta nè a temporali nè a soverchi sconvolgimenti terrestri, dovean ridursi a poche migliaia di creature: una modesta tribù che veniva a trovarsi a tutto suo agio nello spazio loro assegnato, secondo i suoi alti fini, dal Creatore.

Essi vivean sotto il regime patriarcale: il Sommo Capo altro non era che il sommo padre. Essi adoravano Dio: il Creatore di quanto li circondava e Colui che presiedeva a’ loro destini. La loro religione era semplice come la loro vita: essi non conoscevano parole speciali per esprimere le preghiere del loro cuore al sommo Fattore: bastava per loro elevare la mente fino a Lui. Qualunque luogo era adatto per far ciò: si raccoglievano, pensavano a Dio, e questa era tutta la loro semplice e profonda preghiera.

— Noi non abbiamo che un solo tempio, – mi spiegava Kalika, – ma la riva del lago, un monticello di sabbia, la quiete della nostra dimora sono il nostro altare: ed essi bastano per la semplice, sincera e commovente fede.

— Non avete dunque sacerdoti? – chiedemmo.

— No, non abbiamo che i Maestri. E questi sono i vecchi. Quando noi, vissuti nella pace e nel pensiero, mostriamo con le rughe del volto di aver ottenuto da Dio il regno della Sapienza e della vera esperienza – quella che sol si raggiunge con la vita, e che nessun de’ vostri libri può dare a voi – allora noi assorgiamo alla dignità dolce e grave di Maestri.

— E che fan mai questi Maestri?

— Insegnano ai giovani. Essi parlan loro di Dio, essi li guidano, li consigliano, li dirigono. Ma è una guida quasi tutta spirituale. Poichè voi imparerete che quaggiù la vita animale è ben semplice, e ridotta a ben facile cosa. Qui noi ignoriamo la terribile lotta per la vita che sopra la nostra testa con tanto sangue si combatte, giorno per giorno, ora per ora. La vita è facile perchè semplice. Come il Creatore ci ha fatti noi siamo rimasti. Noi siamo ignoranti, voi avete detto, perchè siamo rimasti fedeli all’impronta che con le sue mani divine ci ha dato. Noi siamo rimasti somiglianti alla sua prima imagine, perchè derivati certamente anche noi dal primo peccatore, abbiamo obliato il sapore del frutto del Bene e del Male.

La vita è facile perchè semplice, aveva detto il vecchio Sapiente, ed era vero.

Per una strana proprietà di quell’atmosfera tranquilla, satura di essenze a noi ignote, le funzioni vitali agivan lentamente, senza il convulso fremito che agita e conturba gli uomini.

Una semplice pianta, che cresceva spontanea ed abbondantissima da per tutto, bastava al loro alimento.

Era essa quella strana specie di lichene del quale già ho detto al lettore. Veramente due eran le varietà di questa pianta di che componevasi esclusivamente l’alimentazione di tutte quelle creature. La più comune era una certa specie che a me fece ricordare subito la famosa Leconora esculenta, la strana pianticella che nasce sulle aride montagne dell’Asia e che portata dal vento va a coprire de’ suoi chicchi grossi come nocciuoli gli aridi deserti, come pioggia del cielo. E poichè essa è di gratissimo sapore e di forti proprietà alimentari, forma la delizia, e talvolta l’unico nutrimento, delle povere ed affamate tribù erranti nel deserto. Fu Thénard, dell’Accademia delle Scienze di Parigi, che studiò pel primo questa lichene commestibile e che gittò pel primo l’idea ch’essa potesse essere la famosa Manna che servì a nutrire nel deserto gli Ebrei fuggiaschi della Bibbia.

Questa leconora sul nostro globo non raggiunge, come s’è detto, che le dimensioni di una grossa nocciuola, ma tutto faceva credere che una varietà di essa, gigante e fissa al suolo, fosse quella che serviva di nutrimento agli abitanti del quieto paese di Komokokis.

L’altra varietà poi era quella di cui io aveva masticate alcune foglie: pianta dotata di fortissime proprietà toniche ed eccitanti, il cui primo effetto era un potente risveglio di tutte le forze, ma il cui abuso poteva essere cagione di letali conseguenze.

— Una è il loro pane e l’altra ne è il vino, – aveva detto sorridendo il buon Kalika.

All’infuori di queste due sostanze, adoperate per altro anche molto parcamente, nessun’altra sostanza, nè vegetale nè animale, entrava nella loro alimentazione.

Del resto, come nessuna agitazione soverchia affrettava le funzioni tutte del loro organismo, così anche lo stomaco agiva placidamente e, certamente per l’influenza dell’atmosfera imbevuta, come ho accennato, di essenze a noi ignote, potevan durare ore ed ore, giorni interi, senza prender alcun alimento, e senza che il corpo ne risentisse indebolimento alcuno.

E di questo fenomeno eravam stati prova noi stessi, che dal momento della nostra inaspettata comparsa in Komokokis sino al momento in cui il buon vecchio ci aveva offerto un pugno delle saporitissime foglie, molte ore eran trascorse senza che il nostro stomaco, pel passato così esigente, ce ne movesse rimprovero alcuno.

La loro vita così semplificata quindi per la mancanza della causa principale della lotta fra gli uomini della nostra superficie terrestre: la conquista del cibo, dovea naturalmente trascorrer molto calma e serena, data tutta in particolar modo alle funzioni spirituali. E come lente e placide eran le funzioni della vita animale, così del pari lento era il trascorrer di essa: ecco perchè il nostro Kalika avea potuto raggiunger i centosettanta anni dei nostri, senza fatica alcuna, disposto ancora, se occorreva, ad entrar risolutamente, ed inoltrarsi ben avanti, nel terzo secolo.... Giacchè la media della loro vita, secondo i computi del nostro caro Sapiente, dovea appunto essere dai duecento ai duecentocinquanta anni de’ nostri!....

E qui io debbo far nota una meravigliosa cosa che ci rivelò ancora il buon vecchio.

Dio, dando a quelle creature privilegiate tanta pace, tanta sicurezza di vita, e tanta placida calma di organismo, aveva anche disposto che il divino fatto della generazioni, dovesse per loro esser la grande unica festa della loro vita. Intendo: unica era la creatura che alla madre era concesso offrire allo sposo ed alla tribù: unico, sempre, era il figliuolo che dopo infinita attesa e desìo veniva a far felice, come segno della grazia divina, il placido amore de’ due sposi. E come lento era lo svolgersi dell’esistenza, così lentissimo era lo sviluppo della giovane creatura. Ricordo la sorpresa mia e di Edoardo quando Kalika accennandoci una vaga fanciulla, bianca e luminosa, d’una dolce bellezza ideale, ci mormorò sottovoce:

— Sulla vostra terra quella bella creatura, a quest’ora, non sarebbe più così attraente....

— Perchè mai?

— Sapete quanti anni potrà avere quell’umano fiorellino di luce?

— Quindici o sedici, immagino.

— Ottantasei, miei buoni figliuoli, ottantasei.

Veggo ancora il balzo di Edoardo!...

E mentre la vaga apparizione, involta nel candido manto che la faceva sembrare una impalpabile cosa siderea, si allontanava, noi due, i cui anni sommati insieme non riuscivano ad eguagliare i suoi, lasciandole dietro gli guardi, sentivamo un non so che di strano e profondo sorgere nel nostro cuore ammirando quella bellezza serena che Dio avea voluto quasi salvaguardare dalla rovina dell’attimo che fugge, prolungando la sua vita di fiore con un palpito più lento ma più duraturo che conceder non ha creduto alla fulminea nostra esistenza di un sol giorno, pari a quella di certe splendide farfalle che non vivon che poche ore....

Considerato dunque questo lento sviluppo e le pochissime nascite, accolte veramente e festeggiate come un segno della grazia e benevolenza divina, l’equilibrio della tribù era presto stabilito, e non vi era davvero pericolo di soverchio aumento di popolazione!....

Anche la morte veniva placida e serena per condurre, al termine della loro tranquilla e lunga giornata, al loro eterno riposo i buoni vecchioni che l’avean trascorsa pensando a Dio e amando la sposa e il figliuolo. E da quanto potei comprendere, l’idea della Morte non era per essi accompagnata, a differenza di noi, da alcun terrore o rincrescimento. Era la fine naturale, attesa, conosciuta, era il riposo giusto e inevitabile. E poi essi credevan di lasciare nel figliuolo che Dio loro aveva concesso, lo spirito loro che in lui avrebbe continuato a vivere accumulando nel suo giovane corpo la sapienza acquistata dal padre e da questi ereditata dagli avi.... come il figliuolo un giorno avrebbe rimesso al proprio lo stesso suo spirito sempre arricchito di nuova sapienza e perfezione.

*

Essi nulla sapevano della nostra civiltà. Ignoravano la scrittura. Non possedevano armi, giacchè inutili eran per procurarsi il cibo, come si è visto, e perchè nel loro angolo di quiete non vivevano altri animali oltre i bianchi pesci luminosi che popolavan le acque del lago, varietà di Protei certamente e diCiprinodonti, e le farfalle che svolazzavan ne’ boschetti amici.

Assolutamente ignoti per loro ogni sorta di mammiferi o d’altri animali, giacchè non avevano, sulle loro sabbie, che una piccola lucertola bianca, timida e affatto inoffensiva.

Però un tempo dovean esser vissuti laggiù mammiferi giganteschi: giacchè grosse ossa mostruose mi furon mostrate in una grotta. E anche qui Edoardo mi ricondusse alla memoria ciò che narra un vecchissimo libro cinese Ly-Ki, scritto un cinquecent’anni circa avanti della nostra era cristiana. Esso parla di un animale chiamato Tin-Sciù, ossia topo delle caverne, che vive celato ne’ grandi abissi delle più tenebrose grotte: e che cresce, cresce, sino a raggiungere la grossezza di un bufalo e talvolta di un elefante....

Che fosser quelle ossa veramente gli avanzi dello spettacoloso Topo di cui parla l’antichissimo dotto libro cinese?...

Tolta dunque la lotta contro le fiere e gli altri animali pericolosi, reso facilissimo il modo di procurarsi l’alimento, non soggetti a tempeste nè ad altri cataclismi fisici, in che consisteva dunque l’impiego della lunghissima vita di quella privilegiata popolazione?

Le sue sue operazioni materiali eran limitate tutte alla lavorazione del finissimo tessuto con che formavano i manti ond’eran ricoperti e adoperavan per gli altri loro usi, e che traevano da una pianta filamentosa anch’essa crescente spontanea e molto rigogliosa. A questa operazione, come ebbi a constatare, badavano indistintamente uomini e donne, giacchè la più perfetta eguaglianza di attribuzioni, in generale, appariva tra i due sessi.

Così pure, tanto gli uomini che le donne, si occupavano della pulizia non solo delle piccole loro abitazioni a cupola, tutte formate del solo piano a terreno, ma benanche della pulizia dirò così pubblica, ossia dello spazio tra casa e casa.

E tutto ciò nel più perfetto buon accordo e tranquillità, senza la più lontana e imaginabile contestazione.

Ad un certo momento stabilito, tutti i giovani dei quattro villaggi, fanciulli e fanciulle, si raccoglievano in Komokokis, sede dei saggi, dei Maestri, e ivi, raccolti e silenziosi ascoltavano con la più grande attenzione la parola del vecchio Sapiente che loro insegnava.... che cosa? tutto, la vita, l’amore, la potenza di Dio; un’idea grandiosa e terribile, che noi nell’ignoranza della lingua e del loro modo di pensare non riuscimmo mai ad afferrare, dei doveri della Vita....

Chè, se semplici e facili eran per quelle strane creature le pure occupazioni materiali dell’esistenza, profonde, misteriose, indefinibili per noi dovean essere quelle morali.

Che si agitava in quelle fronti di neve, che passava in quegli occhi profondi, aperti forse a visioni che i nostri poveri occhi ignari non riuscivan a percepire, ne’ loro lunghi silenzi, che a noi parevano eterni?

Che dicevan loro que’ vecchioni centenari nelle loro lunghe orazioni, ch’essi ascoltavan rapiti, con l’aria di creature divine, viventi d’una vita a noi ignota?...

Qualcosa di profondo o di sovrumano doveva ardere entro quelle strane creature fatte solo di luce e di pensiero!...

Noi non comprendevamo.

Come eravam lontani da essi!

Quale altra inesplicabile ed extra-umana vita ferveva ne’ loro esseri?

Ed era in que’ momenti che il fantastico dubbio di essere veramente penetrati nel mondo dell’al di ci riprendeva veemente, empiendoci l’animo di un vago senso di stupore e di sgomento.

Ma il lettore che ci seguirà ancora nel racconto di questo strano attimo della nostra vita, che ora scrivendone ci sembra un sogno, e che pure sogno non è, vedrà ancora quali misteriosi e profondi sentimenti dovea la nostra anima provare dinanzi a mille imprevedute rivelazioni d’una vita così lontana e differente dalla nostra di ogni giorno.

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