II.

Quando misi piede nel Tempio, la quiete immensa che scendeva dalle vôlte pareva gravare solennemente sulle prone figure bianche che facean fitto cerchio intorno alla salma del morto fratello. Riposava essa sopra una specie di letto candido, alquanto elevato dal suolo, nel mezzo del Tempio. Il silenzio intorno era grave e profondo.

Mi ravvolsi nel bianco mantello e scivolai senza far romore sino all’ultima fila degli inginocchiati, al cui fianco presi posto anch’io.

Ad un tratto dalla prima fila dei fratelli genuflessi si alzarono i Maestri – tutti vecchissimi, dall’aria severa e grave, tra’ quali scorsi subito Kalika – i quali avvicinatisi al morto gli fecer corona.

Allora il vecchio Kalika cominciò una semplice ma bizzarra cerimonia.

Toccò prima la fronte, indi il petto della salma, indi alzata una mano profferì alcune parole di rito che volean dire:

— O anima immortale, proteggi il rigido corpo che già fu tuo dall’impura corruzione che è segno di punizione divina.

E vôlto ai fratelli pronunziò altre parole paterne esaltando la Morte, che dà la vera Vita, e la Somma Sapienza del Creatore.

Poi egli si ritirò e si avanzaron quattro giovani fratelli i quali, fattisi intorno al cadavere, lo cosparsero di una sottilissima essenza, destinata a conservarne inalterato il corpo mortale.

Avvenne quindi una cosa meravigliosa.

Ritornati tutti ai loro posti e ristabilitosi il silenzio profondo, i fratelli uniron le loro mani, stringendosi tutti in catena, divenuti quasi un solo, immenso corpo riunito intorno al bianco letto ove immobile e fredda giaceva la salma.

E allora ne apparve a tutti, chiarissimo e vivido, lo Spirito del fratello testè perduto.

Esso vagolò, visione radiosa e sorridente, in alto, sopra il morto corpo: e il luminoso e indefinibilmente solenne sorriso che sprizzava da tutto il suo volto parve voler indicare ai fratelli che rapiti e commossi tenevan su di esso gli sguardi, che la sua vita pura e scevra di macchie aveva ottenuto il guiderdone atteso e sperato.

Vagolò alcuni istanti, radioso, in alto: poi si dissolse nella vaga penombra luminosa.

E i fratelli si chinaron ad adorare: mentre un lungo fremito correva a me le membra ribelli, mio malgrado.

*

Sentii toccarmi lievemente la spalla.

Nella bianca figura ch’era al mio lato io riconobbi subito Edoardo.

— Usciamo insieme, – egli mi mormorò all’orecchio.

Feci un segno di assentimento.

Tutti i fratelli si alzarono.

I quattro più giovani, che già l’avean cosparsa di essenze incorruttibili, sollevaron ora la salina, l’avvolsero nei drappi che avean formato il suo ultimo letto, quindi, seguiti da tutti noi, la recaron verso una delle pareti del Tempio, ove una specie di nicchia, aperta a riceverla, l’attendeva. La salma vi fu introdotta e adagiata, ne fu chiusa l’apertura e il corpo mortale cominciò così il suo eterno riposo.

E noi tutti ci dirigemmo all’uscita.

— Semplice e solenne! – non potei a meno di mormorare ad Edoardo.

— Tutto ciò è semplicemente grande! – disse egli.

I compagni ci sfilavano davanti silenziosi, avvolti nel bianco manto.

Camminammo per qualche tempo in silenzio.

Edoardo mi appariva pensoso.

Ad un tratto ruppe il silenzio:

— Amico, – disse egli, – tu mi nascondi qualcosa.... qualcosa che io, pur tuttavia, credo aver compreso.

Alzai la testa.

— Perchè mi dici ciò, Edoardo? – chiesi.

Egli abbassò il lembo del mantello che gli proteggeva il volto e rispose:

— Pel tuo bene.

Titubai.

— Pel mio bene?

— Sì.

— Come lo sai?

— I Maestri, tu lo sai, mi hanno insegnato a sapere.

— Evvia, – esclamai, – tu parli ormai alla sibillina, come uno qualunque di cotesti misteriosi e sempre ammusoniti diavoli bianchi, che il vero diavolo nostro, su della Terra, se li porti tutto una buona volta!...

— Taci, – mormoro Edoardo, – non ti far sentire! Tu hai portato quaggiù la tua eccessiva nervosità che, lo vedi bene, è cosa esotica e assolutamente fuor di luogo in questo regno della pace perpetua, ed è anche.... pericolosa. Del resto, calmati. Io so la cagione della tua nervosità.

— Spiegati dunque.

— Che sei semplicemente.... innamorato.

— Manco male, hai indovinato!

— E fin qui, – proseguì Eduardo, – nulla di male.... perchè in questa sublime porzione di terra, così superiore, sotto tutti gli aspetti, alla nostra superficie irrequieta e malata, l’amore è considerato la cosa più alta, più nobile, il dono più squisito concesso da Dio alle creature viventi.

— Almeno ciò n’è concesso!...

— Ma quello ch’io riprovo, e che mi fa temere per te si è che tu ami.... alla foggia degli uomini, precisamente, della nostra lontana superficie terrestre....

— Oh bella! e vorresti....

— Con tutte le nervosità, le incoerenze, la febbre malsana di lassù....

— Io non ho potuto convertirmi, amico mio, come tu hai tatto così facilmente.... io non ho potuto mutarmi.

— E il doloroso è che tu....

— Ebbene?

— Che tu hai infuso questo tuo maligno demone tutto terrestre in lei....

— In lei?

— Sì, nella bella e purissima creatura che ti ama.

— Come lo sai?

— So tutto.

— E con questo, o Maestro, – esclamai, tra il serio e il faceto, – che vorresti dirmi?

— Che tu entri in una via piena di pericoli... e non giusta. Tu devi e puoi fermarti a tempo.

— Ma in che modo?

— Tu l’ami sinceramente Kamelia?

— Sai anche il nome?

— Come vedi, lo so.

— Ebbene, allora, cosa debbo fare per.... salvarmi, come tu dici?

Salvarvi, di’ pure.

— Cosa devo fare?

— Rispondi prima alla mia domanda: l’ami tu davvero?

— Oh, sì! È qualcosa di nuovo, di grande, di mai provato da parte mia....

— Ebbene, falla tua.... secondo le leggi del paese nel quale viviamo.

— Non chiedo di meglio.

— Ma non turbarla con rivelazioni per lei forse fatali.

— Ah, ma come fare?... tu non sai, amico mio, tu non sai tutto!

— Parla dunque.

— Tu non sai che in lei, in lei stessa c’è qualcosa che la agita, che la commuove fatalmente, qualcosa che le fa sentire, capisci? intuire che un mistero.... ne divide! E vuol sapere, e si turba, e ne soffre tutta!

— Ah, lo temeva!

— Ah, sì, amico mio. Ed è qualcosa di superiore alle nostre forze. Il mistero che s’è posto ormai tra le nostre anime è il nostro malore; il suo specialmente! La poveretta ne trema tanto! Per calmarla, in qualche modo, per rassicurarla, io le ho promesso di svelarle tutto.

— Ah, non farlo!

— Tenterò di ubbidirti.... ma temo di non riuscirvi. La sua anima inquieta, è troppo in pena!... V’è qualcosa, in queste creature così lontane e differenti dal nostro essere, che a noi sfugge.

— È vero.

— È, in esse, come un misterioso, nuovo senso a noi ignoto. Esse sentono ciò che a noi è celato. Ed ella che ogni cosa, per questo senso recondito intuisce, non sarà forse in pace che quando tutto saprà.

— Ahimè! amico mio!

— Ma perchè temi tanto?

— Non lo so bene, neppur io. Ma una voce secreta mi dire ch’ella non deve – per te – saper nulla del mondo donde noi veniamo. Tu ricordi le parole, quel giorno, nel suo tempio, del vecchio Kalika?

— Le ricordo.

— Non turbare dunque quell’anima.

— Ti ubbidirò.

— Bene. Va ora alla tua casa. Riparleremo di questo. Tanto più che sorge nel mio animo una idea.

— Un’idea?...

— Sì, domandare consiglio a lui, al vecchio Kalika stesso....

— A lui!

— Che te ne pare?

— Non saprei che dirti. Forse hai ragione.

— Sì, io ne sono convinto.

— Parlagli dunque, e...mi dirai dopo.

E ci lasciammo.

Intorno a noi Komokokis taceva nella sua eterna pace fatta di luce.

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