III.

Dopo il Bembo, i ricantatori del Petrarca imperversarono, nel Veneto prima, di lì nel resto d'Italia, su tutti i toni; meglio e peggio, s'intende, secondo l'ingegno e l'arte di ciascuno. Imperversarono perchè è più facile copiare da una copia che da un originale. E a gente che [280] non voleva tanto esprimere l'animo suo quanto far opera di stile e di suono leggiadro, non è meraviglia piacessero, del Petrarca e del Bembo, piuttosto i difetti che i pregi; onde gli strani concetti e le antitesi a freddo; tutti i giochetti insomma del pensiero e della parola. Madonna ha un pappagallo? ecco il poeta pregare il vago augelletto dalle verdi piume a riferirgli quel che Madonna dirà; nè fin qui, salvo l'indiscrezione, è gran male; il male sta nel resto:

E parte dal soave e caldo lume

De' suoi begli occhi l'ali tue difendi,

Chè il fuoco lor (se, com'io fei, t'accendi)

Non ombra o pioggia e non fontana o fiume

Nè verno allentar può d'alpestri monti.

Il diluvio universale ci vorrebbe dunque per le ali d'un pappagallo! E Madonna “ghiaccio avendo i pensier suoi„ se la gode tranquilla dell'incendio degli altri. Non m'incolpate d'essere andato a scegliere l'esempio da un poeta dozzinale; l'autore, quasi mi vergogno a confessarlo, è uno de' migliori di quel secolo, è Giovanni Della Casa. Un altro autore, non illustre oggi, ma illustre allora, Luigi Groto, ci darà l'esempio tipico per le antitesi; rampolli tralignanti, anche questi, della Musa petrarchesca.

Se il cor non ho, com'esser può ch'io viva?

E se non vivo, come l'ardor sento?

Se l'amor m'ange, come ardo contento?

Se contento ardo, il pianto onde deriva?

S'ardo, ond'esce l'umor ch'a gli occhi arriva?

Se piango, come il foco non è spento?

Se non moro, a che ognor me ne lamento?

E se moro, chi sempre mi ravviva?

S'agghiaccio, come porto il foco in seno?

[281]

Mi fermo qui, ed è anche troppo per ciò che mi proponevo: mostrare in che modo cercassero sovente la poesia non nel pensiero, sì nel contrapposto delle parole. L'uno esempio e l'altro, quel del pappagallo e questo delle domande, ridevoli tutt'e due, scoprono il vizio esterno di grandissima parte della lirica petrarchesca rimessa a nuovo dal Bembo: l'esagerazione. Vizio esterno rispondente all'interno, che già v'indicai, della falsità. Se a chi sente non è facile, nell'esprimere il sentimento proprio, guardarsi dall'ingrandirlo, è impossibile, a chi dice diversamente da ciò che sente, guardarsi dalle spiritose invenzioni, come le chiamava Arlecchino, con frase di cui egli critico letterario non avrebbe saputo trovare una migliore per le bugie in rima di tutti i secoli. Perciò l'esagerazione, nei petrarchisti del Cinquecento, guasta anche quello che avrebbe potuto riuscire garbatamente. Un di loro vede la donna sua (Filli; notate il nome; l'Arcadia ha le radici, nelle rime idilliche e pastorali, fin lassù) Filli che innaffia il giardino. Oh finalmente! vien voglia di esclamare; ecco un po' d'aria aperta, ecco un atto colto dal vero, ecco un oggetto umile, l'innaffiatoio, che ottiene anch'esso, non a torto, un po' di luogo nella poesia, sia pure mascherato da cavo rame, e con un'elsa invece del semplice manico. Coraggio, o Celio Magno, o poeta gentiluomo; se sai vincere la difficoltà, noi vanteremo poi il tuo sonetto come un gaio annunzio dei Lieder di Volfango Goethe. Ah, dove mi va a cascare! I fiori non vogliono essere innaffiati; e dicono alla bella:

. . . . . tua man candida e tersa

Cessi l'onda spruzzar, chè noi ricrea

Sol la virtù che 'l tuo bel ciglio versa.

E così il Magno, che d'ingegno non mancava, corruppe miseramente altre poesie sue, di mossa ardita e promettente.

[282]

Sembrin le piume tue pungenti spine

A chi 'l corpo ti crede e pace spera,

Ingrato letto!

L'intonazione non potrebbe esser migliore: avrà fiato il poeta per arrivar fino in fondo? Non gli regge neppure a compiere la prima quartina:

. . . . e in te sanguigna schiera

Di sozzi, avidi vermi il ciel destine.

Il dir troppo è gran nemico del dir bene. Talvolta non si fermavano a tempo, tale altra s'indugiavano ne' preparativi. Un confratello del Magno, Orsatto Giustinian, chiude un sonetto di domande alle varie parti del corpo, con le risposte loro, a questo modo eccellente: ha un ritrovo con la donna sua, tra breve la rivedrà, la udirà parlare; e domanda al cuore:

Ma tu, cor, perchè vai così tremante

A tanta gioia? - Perch'io temo, lasso!

Di perir per dolcezza a lei davante. -

Prima di questa, buona, altre tre domande ci sono, agli occhi, agli orecchi, ai piedi:

Piedi, ond'è ch'or sì pronto avete il passo?

- Perchè n'andremo a quelle luci sante,

Ch'avrian virtù di far movere un sasso. -

Tutt'e tre veneti, il Groto, il Magno, il Giustinian; e da loro ho scelto, perchè il petrarchismo bembiano, chiamiamolo così, furoreggiò specialmente nel Veneto, auspici Girolamo Molin e Domenico Venier, che Bernardo Tasso, da loro beneficato, metteva poi insieme nel suo Amadigi:

Il Veniero e 'l Molin cui l'Indo e 'l Mauro

Ammira, e qual più fama e grido tiene.

[283]

E sembra lode comica; ma più comica quella del Venier per la morte del Bembo, in un sonetto apposito:

Per la morte del Bembo un sì gran pianto

Piovea da gli occhi de l'umana gente.

Ch'era per affogar veracemente,

Come diluvio, il mondo in ogni canto.

A questo modo, l'un l'altro, in vita e in morte, si celebravano tutti, anche se non si fossero veduti mai; anche se non conoscevano, del lodato, che un qualche povero sonetto di proposta; anche se nulla sapevano ch'egli avesse detto o fatto. I cimiteri, si sa, sono la reggia della Bugia; ma le fandonie scolpite sulle lapidi dall'amore o dalla riconoscenza han pure una ragione ed una scusa: ragione e scusa non hanno, nè verso la verità nè verso l'arte, gli encomii rimati dei più tra i cinquecentisti. Volevano, dovevano comporre versi; ogni occasione, ogni pretesto era buono. Posso qui fare a meno dell'esempio, perchè voi rammentate il sonetto di messer Buonincontro per la morte della duchessa d'Urbino, e la caricatura disse meglio che la verità non direbbe su que' trionfi di vane parole.

Quando erano stanchi di descrivere madonna, di supplicare madonna, di piangere madonna; quando non sapevano cui rispondere in rima, o chi celebrare; quando avevano finito, per quella volta, di lagnarsi seco stessi del tempo gittato via nelle vanità del mondo; due altri argomenti restavano loro: l'Italia e la fede; l'Italia decaduta ancella da donna di provincie; la fede di Cristo minacciata da Lutero e dai Turchi. Non che fosse tutta retorica: anzi, devo qui espressamente richiamarmi alla distinzione che stimai prudente di fare tra l'uomo e l'artista; l'uomo amava ed odiava veramente quando anche, nell'arte, si ostinava a mentire vestendo di colori falsi gli odii e gli amori suoi. E il sentimento della grandezza [284] della patria, quale un tempo era stata, doveva spesso scuotere gli animi, col balzare dai libri de' Latini, su cui si venivano fin da' primi anni educando; e il sentimento della fede doveva spesso muovere i cuori, allora che la Riforma sottraeva a Roma tanta parte d'Europa e il vessillo mussulmano correva le nostre marine, con tanto danno di rapimenti e di prede, con tanta minaccia di peggiori conquiste. Onde da un lato il fantasma dell'Impero che s'imponeva ancora alla coscienza italiana; dall'altro, le scomuniche, i tormenti, e l'ultimo sforzo vittorioso di Lepanto. Non solo v'era dunque, pure in ciò, materia altamente poetica; ma nella vita politica e nella religiosa durava e si manifestava non di rado poeticamente un sentimento verace. Ne facciano testimonianza i nomi di Francesco Burlamacchi e di Pietro Carnesecchi, morti ne' supplizi, l'uno per l'Italia, l'altro per la fede, con fermezza romana e cristiana. Se non che la patria, come accadeva dell'amore, soltanto di rado era cantata con rispondenza vera al sentimento del poeta, il quale parteggiava per Carlo, per Francesco, per Venezia, pel pontefice, soltanto nella vita; nell'arte non sapeva che volgersi quasi per esercizio di scuola, a quelle “antiche mura che ancor teme ed ama e trema il mondo„, che il Petrarca aveva salutate con lagrime nel grido della sua ammirazione. A guardar la cosa secondo politica, ben dicevano i tanti Lamenti sullo stato miserando d'Italia, e ben diceva il Venier. Così cominciava un Lamento, famoso a metà del secolo:

Io son l'afflitta Italia, anzi pur fui,

Che piango la mia gloria in terra scesa,

E doler mi vorrei, nè so di cui.

Deh, poi ch'io non son forte a far difesa,

Perchè non posso almen morire, e a un'ora

Finir mia doglia e l'altrui rabbia accesa?

[285]

E quasi con le stesse parole il Venier:

Mentre, misera Italia, in te divisa

Da strane genti ogni soccorso attendi,

Contra te stessa in man la spada prendi,

E vinca o perda, hai te medesma uccisa.

Ma nè questi erano versi buoni, nè poteva la considerazione politica (fosse pure, come qui è, piena di rammarico e di mestizia) procacciare di per sè sola un'alta poesia patriottica. Quanto alla fede, le toccò meno ancora che alla patria; e ripensando alle condizioni nostre nel secolo decimosesto, nessuno ne stupirà. Del papato ci curavamo, istituzione mondana; della Riforma germanica avemmo terrore o sogghignammo; nè il concilio di Trento durò fatica tra noi a piegare nella disciplina apparente le forze della fede vivace. Perchè la poesia politica potesse rinnovarsi, convenne che l'Italia si destasse, sotto la voce aspra di Vittorio Alfieri, e nelle scosse de' nuovi invasori; perchè potesse innovarsi la poesia religiosa, convenne che il filantropismo del Voltaire rinfrescasse i precetti di Cristo negli Inni sacri di Alessandro Manzoni.

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