IV.

Non vorrei sembrarvi Minosse, che esamina le colpe in sull'entrata, e giudica e manda secondo che avvinghia; così io, nel condannare alla spiccia que' poveri lirici, tutti quanti. Se in cambio d'un'occhiata generale avessi agio di dare insieme con voi a ciascuno di loro particolarmente l'attenzione debita, saremmo indotti, non è dubbio, a distinzioni ed eccezioni: perchè il Tansillo, Galeazzo di Tarsia, il Rota, Angelo di Costanzo, per l'Italia meridionale, il Guidiccioni e il Della Casa per la centrale, il Molza per la settentrionale, e la schiera gentile [286] delle poetesse, la Colonna, la Stampa, la Gambara, per tacere di troppi altri e di alcune altre, hanno ciascuno fattezze proprie, e meriterebbero censure e lodi appropriate. Ma ben può dirsi che nessuno, neppure il Tansillo, ch'è forse di tutti il migliore, seppe infondere durevolmente spiriti nuovi alla decrepita poesia petrarchesca, vanamente rimbellettata dal Bembo. Oggi, per l'arte, non si può attribuire importanza vera se non a ciò che rientra nello svolgimento de' generi letterari fino al capolavoro; sia esso stato prodotto in quella o in questa parte del mondo civile. Con uno scambio continuo d'imitazione le genti europee alle quali si aggiunsero di recente le sorelle d'America, collaborano tutte ad una grande arte comune; e il poeta dell'una è gioia e gloria di tutte, non solo perchè tutte lo ammirano, ma perchè possono secondo i casi vantarsi tutte di averlo più o meno efficacemente preparato e vaticinato. Shakespeare è un frutto del Rinascimento che mosse da noi; Molière non sarebbe stato senza la commedia letteraria nostra e senza quella, pur nostra, che fu detta dell'arte; i Promessi Sposi non potevano sorgere se la Scozia non avesse dato Gualtiero Scott al romanzo storico. Ora in questo nobile avvicendamento, la lirica petrarchesca del Cinquecento ha troppo lieve importanza: imitata fu anch'essa, perchè l'arte nostra, levigata dal Rinascimento, precedeva e ammaestrava le altre più recenti; imitata fu, ma non recò sangue nuovo nella poesia europea; e chi la guardi, con occhio medico, quale si presenta nell'insieme de' sintomi, riconosce subito che sangue nuovo non poteva darne, perchè ella stessa si moriva d'anemia.

Quel che è peggio, moriva tra gl'improperii e gli sghignazzamenti d'una turba sguaiata, che le aizzavano contro Pietro Aretino e Nicolò Franco; incapaci d'un'alta parodia estetica, quale fu poi pe' romanzi il romanzo del Cervantes, ma capacissimi di satire mordaci. Garbo non [287] ebbe forse che un poeta vero, il Berni; dico in tali battaglie contro il petrarchismo; il Berni, di cui rammentai il sonetto sulle bellezze della donna sua, e che chiudeva così in pochi versi la sentenza giusta e ragionata, contrapponendo ai pedissequi del Petrarca Michelangelo Buonarroti, poeta vero anche lui:

Ho visto qualche sua composizione:

Sono ignorante, e pur direi d'avelle

Lette tutte nel mezzo di Platone;

Sì, ch'egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle:

Tacete unquanco, pallide viole,

E liquidi cristalli e fere snelle;

Ei dice cose, e voi dite parole.

Questo unico poteva essere il rimedio; in ciò soltanto la guarigione. Ma a dir cose non basta, nell'arte, la buona volontà; bisogna averle nel pensiero, sentirle entro sè, saperle esprimere in modo che appariscano cose anche agli altri. Per ciò, fu tentativo inefficace, sebbene lodevole, quello del Della Casa e del Guidiccioni che, sperando migliorare la musica, si contentarono di riaccordare l'istrumento. Il Petrarca, come nel resto dell'arte sua, era stato anche nei metri non tanto inventore quanto purificatore; che è, del resto, legge costante nei grandissimi e perfetti per tutti i generi e per tutte le forme estetiche: non si era valso che della canzone e del sonetto semplice, con qualche sestina, qualche ballata, qualche madrigale; e la scelta severa fu dalla riforma del Bembo consacrata agli imitatori. Di più, in quei metri stessi, l'orecchio squisito del maestro aveva fissate le pause, con rispondenza continua tra il ritmo e la sintassi, il suono ed il pensiero: da ciò, come accade, la monotonia de' seguaci. Onde dovè apparire al Della Casa un gran fatto quando osò, contro le pause determinate dagli esemplari e dall'uso, svolgere i suoi periodi, nel [288] sonetto, dall'una all'altra quartina, dalle quartine nelle terzine, e rompere il verso con quello che i romantici francesi chiamarono, in una riforma consimile, gli enjambements.

O dolce selva solitaria, amica

De' miei pensieri sbigottiti e stanchi,

Mentre Borea ne' dì torbidi e manchi

D'orrido giel l'aere e la terra implica;

E la tua verde chioma ombrosa, antica,

Come la mia par d'ogn'intorno imbianchi;

Or che 'n vece di fior vermigli e bianchi,

Ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica;

A questa breve e nubilosa luce

Vo ripensando, che m'avanza; e ghiaccio

Gli spirti anch'io sento e le membra farsi:

Ma più di te dentro e dintorno agghiaccio;

Chè più crudo Euro a me mio verno adduce,

Più lunga notte, o di più freddi e scarsi.

Bel sonetto; ma più bello nel suono che nel concetto, e non senza peccato di ridondanza nello stile. E poi, fossero pur perfetti questo e l'altro al Sonno

O Sonno, o de la queta umida ombrosa

Notte, placido, figlio.

pochi sonetti e poche canzoni armonicamente temprate, non basterebber a far poeta il Della Casa, che fu soltanto un artista, non di rado, felice. E valga, ciò che dico di lui, anche pel Guidiccioni, e per gli altri della scuola loro: alla quale il massimo onore fu fatto da Torquato Tasso, che nella lirica vi militò da per suo. Ma neppure Torquato (sul quale meglio ch'io non saprei vi parlò il Nencioni, e ciò mi scusi se accenno a lui così di passaggio) neppure Torquato fu lirico rinnovatore. Infuse, è vero, talvolta la gentile anima sua nel sonetto e nella canzone, con effetti mirabili; cesellò madrigali finissimi; [289] ma quelle sue rime buone mischiò fra troppe altre lambiccate in servigio de' signori e delle signore, o a loro sollazzo, con sì poca serietà artistica che non di rado, contro il precetto del Vangelo, fece servire a due padroni un componimento medesimo. Nondimeno, dove fu schietto, anche in quella ultima maniera della lirica petrarchesca riuscì grande; perchè grande era l'anima sua di poeta: e se la lode allo Stigliani è pur essa un tristo esempio della mala fede con la quale si celebravano l'un l'altro a vicenda.

Stiglian, quel canto onde ad Orfeo simile

Puoi placar l'ombre dello stigio regno,

Suona tal che ascoltando ebro ne vegno,

Ed aggio ogni altro e più 'l mio stesso a vile,

come dolcemente suonano invece in sospiro gli ultimi versi dello stesso sonetto, dopo l'incoraggiamento al giovane che salga l'aspro Elicona!

Ivi pende mia cetra ad un cipresso:

Salutala in mio nome, e dàlle avviso

Ch'io son da gli anni e da Fortuna oppresso.

E così sempre quando parlò di sè e de' casi suoi, o quando in argomento degno si volse da gentiluomo, con un cotal suo garbo di libera devozione, ai principi onde era beneficato, alle dame che ammirava e che amava. Meglio ancora nei cori dell'Aminta; dove la sua naturale mestizia, che direi volentieri di epicureo, se non fosse voce abusata in senso non buono, si compiacque di tutta la dolcezza ch'è nel rimpianto; nel rimpianto ai tempi favolosi dell'età dell'oro, quando l'Amore non aveva da contrastare con l'Onore, e tra le erbe fiorite, senza sospetti nè rimorsi,

[290]

Sedean pastori e ninfe

Meschiando a le parole

Vezzi e sussurri, ed ai sussurri i baci

Strettamente tenaci.

Amiamo, concludeva catullianamente il voluttuoso poeta della corte estense, che a mano a mano doveva macerarsi e distruggersi, combattendo sè stesso con gli scrupoli religiosi, combattendo l'arte sua con gli scrupoli critici:

Amiam, chè non ha tregua

Con gli anni umana vita, e si dilegua.

Amiam, chè 'l Sol si muore, e poi rinasce:

A noi sua breve luce

S'asconde, e 'l sonno eterna morte adduce.

L'arte del Tasso, per la sterminata ammirazione che suscitò, ebbe molta parte a determinare la poesia del Seicento: ma, come nella Gerusalemme così nella lirica, egli, anzi che indurre a forme nuove, chiuse e consacrò forme antiche. Con lui morì il poema epico-romanzesco, con lui morì la lirica petrarchesca. Quel molto di vitale che egli trasse dall'anima sua, anima di uomo e di poeta moderno, e depose in quelle nobili forme, non germogliò se non quando ne fu tratto fuori, e in altre forme ridestato: a quel modo che si narra dei chicchi di grano rimasti inerti ne' secoli entro il chiuso delle Piramidi; che, ridonati alla terra ed al sole, germogliarono vivi.

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