II.

Vittorio Alfieri, nato nel 1749, quando il Metastasio era negli onori massimi e già sullo sfiorire, ebbe dal forte Piemonte adusta la tempra del corpo e ben salde le fibre dell'animo. Il conte astigiano, militarmente educato a Torino, nel collegio dove gl'insegnarono più francese che italiano, altiero, ribelle per indole alla volontà altrui, si vendicò subito che potè di quella disciplina correndo l'Italia e l'Europa a rompicollo. Francia, Inghilterra, Olanda, Svizzera, Germania, Danimarca, Svezia, Russia; e poi, in un'altra corsa, Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo, dal '67 al '72 lo vedono passare e ripassare giovane ardente, fantastico, turbolento, che ama e disama, che spende e spande, che ha tragiche e comiche avventure di passioni, di duelli, di processi; tradito, vilipeso, pregiato, onorato; sempre desideroso del meglio, sempre scontento del presente, sempre scontento di sè. Passa e ripassa con frotte di cavalli generosi: di lì a poco preferirà i libri.

Guarito da un amore in Olanda, incappa nel '71 nella Penelope Pitt, che a sedici anni è divenuta [186] la viscontessa Ligonier; e per lei si batte col marito, per lei è tratto insieme con un palafreniere in un processo di divorzio. Un altro amore a Torino, l'anno dopo, indirettamente l'avvia a comporre tragedie. Poi nel '77 a Firenze “degno amore lo allaccia finalmente per sempre„: ama la moglie di Carlo Odoardo Stuart, la contessa d'Albany; e si studia di sottrarla a quello sbevazzatore che, dimentico della sua dignità e delle prove da lui fatte non senza gloria come pretendente alla corona d'Inghilterra, le è un “irragionevole ed ubbriaco padrone„; ordisce sottilmente la trama della liberazione, la compie quasi per rapimento, si assume intiera la responsabilità del fatto, con la donna amata convive pubblicamente, in faccia all'attonita aristocrazia, rivale felice d'un marito di casa reale.

Intanto, ne' viaggi e nelle passioni e nelle amicizie varie, gli si era allargato il sentimento e la coltura: l'Inghilterra e la Francia gli avean mostrato assodate o in via d'esperimento le leggi della libertà: tutta l'Europa aveva corso, o da tutta l'Europa raccolto in sè l'odio contro il feudalismo antiquato e la bramosia delle riforme civili. A Ginevra s'era già comprati l'Helvetius, il Rousseau, il Montesquieu; poi lesse Plutarco e se n'infiammò; quattro e cinque volte di seguito lo lesse “con tale trasporto di grida disperate [187] e di furori per anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzito„. Con lacrime di dolore e di rabbia raffrontava Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, a' piccoli reggitori del Piemonte: un giorno intiero, meditando l'Italia presente, pianse sulla tomba di Dante a Ravenna. Si rodeva, e pur seguitava a menar la vita dello scioperato e dello scapestrato; ma il suo era come il ribollimento della terra che abbia sentita la prima pioggia primaverile.

Presentato nel '69 al re di Prussia, non ebbe altro lievito che d'indignazione e di rabbia: poche parole gli disse il re; egli l'osservò profondamente ficcandogli gli occhi negli occhi, e ringraziò Dio che non lo aveva fatto nascere schiavo di Federigo II. Anche dal re di Piemonte si volle libero; e, fatta donazione di tutto il suo, andò a tôrre licenza: quel re, che era il buon Vittorio Amedeo II, non gli parlò punto della cosa, e lo accolse affabile e cortese come era sempre. Onde poi il conte nella Vita: “Ancorchè io non ami punto i re in genere, e meno i più arbitrari, debbo pur dire ingenuamente che la razza di questi nostri principi è ottima sul totale, e massime paragonandola a quasi tutte l'altre presenti d'Europa. Ed io mi sentiva nell'intimo del cuore piuttosto affetto per essi, che non avversione; [188] stante che sì questo re che il di lui predecessore sono di ottime intenzioni, di buona e costumata ed esemplarissima indole, e fanno al paese loro più bene che male. Con tutto ciò quando si pensa e vivamente si sente che il loro giovare o nuocere pendono dal loro assoluto volere, bisogna fremere, e fuggire.„ Oh il bacio, il bacio sonoro del Metastasio sulla mano dell'augusto padrone!

Dopo che l'Alfieri ebbe baciate, in cambio di una mano imperiale, le rovine della Bastiglia, avidamente raccolte a memoria del fatto, gli toccò sentire la libertà impiccante e spogliante, come la chiamava pronunziando gli epigrammi feroci che, deluso nelle alte speranze, scagliò, fin che gli resse la vita, contro la Francia. E dalle Fiandre e dalla Germania, venne a Firenze, dove Ugo Foscolo lo vide passeggiar solo dove Arno è più deserto. Qui scrisse le commedie, volto ormai col pensiero all'esempio degli Inglesi, che soli gli avevan dato libertà e pace, e soli sembravan godere patria e libertà, e per ciò partigiano ormai degli ordini costituzionali ove si contemperano le signorie dell'Uno, de' Troppi, de' Pochi, tre veleni che commisti fanno l'antidoto. Qui allo Strocchi giovane che andò a visitarlo gridò rimbrottandolo che parteggiasse pe' Francesi: “Que' scellerati Francesi hanno ammazzato [189] il loro re: i re vanno ammazzati, ma sul trono, non balzarneli con inganno e, appena caduti, vilmente trucidarli!„ Qui, disperato del tempo e degli uomini presenti, affisse sulla porta di casa quel biglietto che si era stampato con le proprie mani: “Vittorio Alfieri, non essendo persona pubblica, e supponendosi di poter essere almeno padrone di sè in casa sua, fa noto a chiunque cercasse di lui, ch'egli non riceve mai nè le persone nè ambasciate nè involti nè lettere di quelli che non conosce e da cui non dipende.„ E qui morì nel 1803, atteggiandosi a misantropo sdegnoso. Ma come caldo d'amore nel suo pensiero per gli uomini tutti! come ardente per gli uomini d'Italia, quali degni di lei nascerebbero un tempo! Quando scrisse la dedica del Bruto II, volgendosi al popolo italiano futuro, si direbbe che il conte Alfieri, dotato di profetici spiriti, si vedesse innanzi i martiri, i soldati, i diplomatici del '21, del '48, del '59: quando scrisse i versi sulle battaglie future tra Italia e Francia, fu profeta, almeno in parte, davvero. A Roma, nel '49, più d'uno de' volontarii (perchè non il Mameli?) avrà susurrato:

... O Vate nostro, in pravi

Secoli nato, eppur creato hai queste

Sublimi età che profetando andavi!

[190]

Ora, il conte astigiano che, posando a Marsiglia, con le spalle addossate a uno scoglio, dinanzi alle due immensità del cielo e del mare abbellite dai raggi del sole cadente, passava ore di delizia fantasticando; o viaggiando nel Settentrione dalle selve, dai laghi, dai dirupi, si sentiva sorgere entro l'animo ruvidamente scolpite le immagini che poi ritrovò nell'Ossian; o cavalcando per le pianure deserte dell'Aragona piangeva dirottamente, senza sapere di che, per la poesia che terribile e lieta e mesta e pazza gli si affacciava alla mente in immagini mal distinte; questo poeta grande, questo cittadino grande, quest'anima, insomma, questa vita, nel 1769 toccarono per un momento o furono per toccare l'anima e la vita dell'abate Pietro Trapassi, del poeta cesareo Metastasio.

Era a Vienna l'Alfieri, e il ministro sardo gli aveva proposto di condurlo dal Metastasio, quando un giorno nei giardini imperiali di Schoenbrunn lo incontrò. Da lontano lo vide “fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria„ che più non volle saper di conoscerlo. “Non avrei consentito mai di contrarre nè amicizia nè familiarità con una Musa appigionata o venduta all'autorità dispotica da me sì caldamente abborrita.„

Il Metastasio morì senza aver saputo di tale [191] incontro: se l'avesse saputo, l'Alfieri gli sarebbe sembrato un matto, un bel matto da legare. E del matto si diede, raccontando da vecchio l'orrore suo pel Metastasio, l'Alfieri: ma in quella mattia era l'entusiasmo che solo può risuscitare la vita e la coscienza d'un popolo.

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