III.

Da un lato, dunque, l'alta società viennese. “Qui gli odii e gli amori (scriveva il Metastasio al Farinello nel '47) non tolgono mai il sonno: qui l'anima s'impaccia pochissimo degli affari del corpo: la sera siete il favorito, la mattina l'incognito. Le premure, le agitazioni, le sollecitudini, le picciole guerre, le frequenti paci, le gratitudini, le vendette, il parlar degli occhi, l'eloquenza del silenzio, insomma tutto ciò che può dar di piacevole o di tormentoso il commercio delicato delle anime, è paese non conosciuto, se non che come ridicolo ornamento de' romanzi. È cosa incredibile a qual segno arrivi l'indolenza di queste placidissime ninfe. Io dispererei di trovarvi una sola capace di trascurare un giuoco di piquet per la perdita o per la morte d'un carissimo [192] amante; ve ne troverei ben quante mai ne volessi di quelle che non interromperanno l'insipido lavoro de' lor nodetti fra gli eccessi dell'estro più misterioso. E voi temete per me? Tranquillatevi pure. Non si corre questo rischio.„ E in quella società che nella sua aristocratica superiorità al volgo degli uomini rinunziava alle passioni degli uomini, l'abate Metastasio cantò le passioni non vere degli eroi melodrammatici e di sè. Sottile analizzatore degli affetti si dilettava incidere, come Properzia de' Rossi fece della Passione di Cristo, tutta quanta la storia d'una passione sopra un nocciolo di pesca; ma erano affetti immaginarii. Perfino Nice, la Nice che gl'inspirò così leggiadre canzonette, visse soltanto nella mente del poeta, che si raccomandava agli amici non restassero ingannati dai teneri versi; non gli facessero il torto di crederlo innamorato, non esser egli capace di tali debolezze! Invece, se correvan chiacchiere di certe sue avventure con una ballerina, raccomandava le lasciassero correre “perchè alla fine, quando ci andiamo avvicinando ad una certa età non ci dispiacciono tanto queste imposture che accreditano il nostro vigor giovanile.„ Chiuso sempre in quei salotti di dame e di attrici, non desideroso d'altro che dell'agiato vivere, lontano dalla patria e da' parenti, il Metastasio fermò sè, la [193] sua vita, la lingua e l'arte sua, in una beata ed elegante placidità: non si curò di sapere, ignorò che facesse, che pensasse il popolo italiano: invecchiò supremo rappresentante d'un'età e d'una letteratura ormai trapassate.

Dall'altro lato, tutta l'Europa che segreta fermenta. E l'Alfieri vi si aggira irrequieto, smanioso; suggendo dalla natura viva, e dai libri vivi, e dagli uomini e dalle donne vive, gli elementi delle passioni che l'agitano diversamente finchè non ama la D'Albany, le lettere classiche, l'Italia futura. Diceva che, nato libero, avrebbe amato la patria su tutto; nato schiavo, nulla amava più che la sua donna: amò invece la sua donna e la patria, come nessuno de' nostri poeti dalla prima metà del Cinquecento aveva più saputo amarle:

Or duro, acerbo; ora pieghevol, mite:

Irato sempre; e non maligno mai:

La mente e il cor meco in perpetua lite.

Per ciò egli è un'anima moderna; e, pur nelle forme in che la costrinse quasi a dispetto, l'arte sua, nell'intendimento e ne' concetti, è tutta moderna. Perchè gettò via lo Shakespeare, subito che si accorse che gli andava troppo a sangue? Mala paura lo colse d'essere indotto a imitarlo, e non volle. Tardi tornò a lui, e tardi lo imitò; [194] quando le forze non erano più adeguate all'impresa. Perchè lo spirito suo non s'infuse piuttosto in liberi drammi all'inglese che nelle anguste tragedie alla francese? La potenza dell'Alfieri, se è lecito rimpiangere che chi tanto diede non abbia dato anche più, fu, a parer mio, anche maggiore dell'opera sua. Poeta più che artista: più artista che poeta, di contro a lui, il Metastasio.

Dall'uno all'altro, rammentata pure la tanta disparità delle indoli, e i casi diversi delle vite, non intenderebbe il passaggio chi non ripensasse cause più generali e profonde: la critica trionfatrice, le riforme civili ed estetiche che ne mossero, l'esaurimento del melodramma, la maturità della tragedia.

Al Metastasio, non si crederebbe!, fu fatto invito di collaborare all'Enciclopedia, proprio a quella del Diderot, di cui l'ultimo volume uscì nel 1772. Avrebbe potuto mandarle, come non disformi dagli intendimenti dell'impresa, certe Osservazioni sul teatro greco dove, prendendo a una a una in esame le tragedie d'Eschilo, Sofocle, Euripide, e le commedie d'Aristofane, le giudicò tutte secondo i gusti e le idee del Settecento, nè risparmiò sali mordaci a quella “aurea semplicità greca„ che mal pareva anche a lui sciocchezza. Tanto aveva potuto il secolo perfino sullo scolaro di Gianvincenzo Gravina, sul Trapassi [195] che il Gravina aveva, per amor de' Greci, metastasiato. Dimostrato falso dal Galilei il principio dell'autorità nelle scienze, rimesso in onore da lui il pensiero vivo, la ragione abusava ormai delle forze sue, credendo poter costituire sè medesima giudice di tutto, del presente, del passato, dell'avvenire, non secondo le necessità della storia, ma secondo leggi ch'ella medesima si foggiava idealmente. E perchè ella era quale i tempi recavano che fosse, diversa da quale in altri tempi era stata, derideva nel passato tutto quello che non l'appagava più, voleva ridurre nel presente ogni cosa a suo modo, studiava di preparar l'avvenire, su norme teoriche, tale da imporgli poi come Faust al minuto sfuggente: “Férmati, tu se' bello!„

Non prevedendo bene gli effetti, a mezzo il secolo scorso lavoravano tutti, l'aristocrazia e l'alto clero non meno de' borghesi, a tale opera di revisione, di riforma, di preparazione. Onde la critica sagace delle autorità mal consacrate, e insieme l'irreverenza contro i grandi de' tempi che furono, Omero, Dante, Shakespeare; onde utili mutazioni di leggi e di costumanze, e insieme abbozzi utopistici di legislazioni e di costituzioni per la piena, universale, sempiterna felicità del genere umano. Il male era pertanto misto al bene in sì fatto fervore di pensieri e di coscienze; [196] ma io non sono di quelli che affermano essere stato il male più assai che il bene. Concordano tutti che le riforme, delle quali si giovò allora e pe' corpi e per le anime tanta parte d'Europa, furon giuste e proficue. Ma que' sogni per l'avvenire non apparecchiarono di là dagli orrori della Rivoluzione, altre riforme, giuste e proficue del pari? Così lento è il Bene nel suo secolare viaggio verso la meta cui gli è lecito avvicinarsi sempre più, sempre più, ma non raggiungerla mai, che ad affrettarlo tanto giova la Fantasia quanto forse la stessa Ragione. Troppo cauta è questa nel guidarlo. La Fantasia, ignorante degli ostacoli, fa cuore al Bene e gli dà così forze novelle per proseguire ancora nell'arduo, nell'infinito cammino.

Ed ebbe alcun che di utile, sebbene ridicola spesso, e turpe qualche volta, la irreverenza verso il passato, il disprezzo della storia: perchè soltanto per quell'eccesso si compensò l'eccesso opposto, della cieca devozione, della superstizione pedantesca, onde in nome de' morti si vituperavano i vivi. Non loderemo davvero nè il Cesarotti contaminatore d'Omero, nè il Bettinelli spunzecchiatore di Dante, nè il Voltaire calunniatore dello Shakespeare; ma se de' grandi non fu inteso il valore, che la storia meglio studiata ci mostra oggi intiero, ebbe del buono quell'affermazione [197] dover l'arte viva d'ogni età rispondere alla coscienza dell'età propria, sia pure prevenendola d'alquanto; nè ricalco sull'antico nè moda audace e rapidamente caduca; sì espressione estetica della civiltà sociale e della coltura intellettuale onde è prodotta.

Tra il Metastasio e l'Alfieri passò dunque di mezzo quasi una gran folata di vento, che spazzò via molta polvere e molti germi sparpagliò da per tutto; una gran folata di vento, come d'improvviso ne dà l'estate, ad annunziare un temporale che avanza. Verranno la pioggia e la grandine e i fulmini e i tuoni: ma intanto l'afa è cessata, e si respira meglio.

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