CAPITOLO VII.

De' Giureconsulti, e loro libri.

Ma quel che principalmente alle leggi de' Romani recasse maggior autorità e fermezza, fu l'essersi mai sempre lo studio della giurisprudenza avuto in sommo pregio ed onore appresso gli uomini nobilissimi di quella Repubblica. Conoscevano assai bene, che non mai abbastanza si sarebbe provveduto a' bisogni de' cittadini colle sole e nude leggi, se nella città non vi fosse eziandio chi la lor forza e vigore intendesse ed esponesse; e nell'infinita turba delle cose e varietà degli affari, non potesse al Popolo giovare. Perciò vollero, che a sì nobile esercizio si destinassero uomini sapientissimi ed i più chiari lumi della città, i Claudj, i Sempronj, gli Scipioni, i Muzj, i Catoni, i Bruti, i Crassi, i Lucilj, i Galli, i Sulpizj, ed altri d'illustre nominanza; a' quali è manifesto, non altra cura essere stata più a cuore, che lo studio della giurisprudenza, e la cognizione della ragion civile; giovando al pubblico o colle loro interpretazioni, o disputando, o insegnando, o veramente scrivendo. E qual altra gente possiamo noi qui in mezzo recare, la quale colla romana potesse in ciò contendere? Non certamente l'ebrea, la cui legal disciplina, essendo molto semplice e volgare non fu mai avuta in molta riputazione. Non i Greci stessi (per tralasciar d'altri) presso de' quali l'ufficio de' Giureconsulti si restringeva in cose pur troppo tenui e basse, e la lor opera si raggirava solamente nell'azioni, nelle formole e nelle cauzioni, in guisa che i Professori come quelli che erano della più vile e bassa gente, non venivano decorati col venerando nome di Giureconsulti, ma di semplici Prammatici; tanto che Cicerone soleva dire che tutte le leggi e costumi dell'altre Nazioni a fronte di quelle de' Romani, gli sembravan ridevoli ed inette. Appresso dunque i Romani solamente presiedevano, quasi custodi delle leggi, uomini nobilissimi, dotati d'ogni letteratura e di sapienza incomparabile, gravi, incorrotti, severi e venerabili, ne' quali era riposto tutto il presidio de' cittadini: a costoro e per le pubbliche e per le private cose si ricorreva per consiglio: a costoro o passeggiando nel Foro, o sedendo in casa, non solamente per le cose appartenenti alla ragion civile, ma per ogni altro affare ricorreva il padre di famiglia volendo maritar la figliuola, ricorreva chi voleva comperare il podere, coltivare il suo campo ed in somma non vi era deliberazione così pubblica, come privata e domestica, che da' loro consigli non dipendesse; tanto che soleva dire lo stesso Cicerone, che la casa d'un Giureconsulto era l'oracolo della città. Avevano essi ancora tre altre principali funzioni: il consigliar le parti ch'era l'unica funzione degli antichi pratici: il consultare i Giudici su i punti del diritto ne' processi che si dovean giudicare: e finalmente l'esser assessori de' Magistrati per istruire e qualche volta per giudicare i processi o con loro, o senza loro: Avevan ancora un'altra autorità cioè, che quando sopravveniva qualche difficile questione in Roma, essi univansi tutti insieme per disputarla e concertarla, e questa conferenza appellavasi disputatio fori, di cui Cicerone fa menzione nel libro primo ad Q. F. e nelle Topiche; e quel ch'essi risolvevano in tali assemblee era chiamato Decretum, ovvero recepta sententia, la quale era una spezie di legge non iscritta, come tratta molto metodicamente Revardo.

Ma se grande ed in sommo onore fu lo studio della giurisprudenza ne' tempi della libera Repubblica, non minore fu certamente sotto gl'Imperadori infin a' tempi di Costantino M. Poichè essendo negli ultimi tempi del cadimento della Repubblica mancati tanti insigni G. C. e per vizio del secolo tratto tratto introdottosi, che ciascuno fidando solamente ne' suoi studj, pubblicamente interpretava a suo modo le leggi, ed a suo talento consigliava e rispondeva, acciocchè per la moltitudine de' Professori, o per la loro imperizia e sordidezza, una cosa di tanto pregio ed importanza non s'avvilisse: ovvero come dice Pomponio (o qual altro si fosse l'Autore di quel libro) affinchè fosse maggior l'autorità delle leggi, fu da Augusto stabilito che indifferentemente niuno potesse arrogare a se questa potestà come erasi fatto per lo passato; ma per sola sua autorità e licenza interpretassero e rispondessero; e che ciò dovessero riconoscere per suo beneficio; e per premio delle insigni loro virtù, della singolar erudizione e per le perizia delle leggi civili: laonde ingiunse egli, che si dovesse prender lettere da lui; e quindi avvenne che i G. C. fossero riputati come ufficiali dell'Imperio; di che l'Imperadore Adriano s'offese a ragione, dicendo, che non era dell'Imperadore dar carattere di capacità, qual si richiede per esser Giureconsulto; ond'è che Pomponio saggiamente scrisse: Hoc non peti, sed praestari solere. Di maniera che d'allora innanzi i Giureconsulti, consigliando per l'autorità dell'Imperadore, erano come ufficiali pubblici, ed in perpetuo magistrato: almeno come Manilio qualifica il Giureconsulto: Perpetuus populi privato in limine Praetor.

Si vide ancora la giurisprudenza romana per li favori de' Principi ne' medesimi tempi al colmo della sua grandezza e dell'onore; poichè i Principi stessi, a' quali oggi solamente si commendan le discipline matematiche, non altro studio maggiormente avevan a cuore, che quello delle leggi: nè altri che i Giureconsulti negli affari più ardui e gravi si chiamavan a consiglio. Così leggiamo d'Augusto prudentissimo Principe, che volendo a' codicilli dar quella forza ed autorità, che poi diede, dice il nostro Giustiniano che convocò a se uomini sapientissimi, tra i quali fu Trebazio, del cui consiglio soleva sempre mai valersi nelle deliberazioni più serie e gravi. Così parimente appresso gl'Istorici di que' tempi osserviamo, che Trajano avesse in sommo onore Nerazio Prisco e Celso padre: Adriano si servisse del consiglio di Celso figliuolo di Salvio Giuliano, e d'altri insigni Giureconsulti. Piacque ad Antonino Pio l'opera di Volusio Meziano, d'Ulpio Marcello e d'altri. Marco Antonino Filosofo, nelle deliberazioni e nello stabilir le leggi voleva sempre per collega Cerbidio Scevola gravissimo Giureconsulto, al quale si dà il pregio d'avere avuti per discepoli molti celebri Giureconsulti, e fra gli altri Paolo, Trifonino, ed il grande e l'incomparabile Papiniano: Alessandro Severo adoperava i consigli d'Ulpiano, nè da lui stabilivasi costituzione senza il parere di venti Giureconsulti: Massimino il Giovane si serviva di Modestino. Nè per ultimo gli stessi Imperadori nelle loro constituzioni medesime, vollero fraudare quei grand'uomini del meritato onore; poichè in esse con sommi encomj si valevano della coloro autorità come fecero Caro, Carino, e Numeriano di Papiniano, e come fece Diocleziano, che con elogi si vale dell'autorità di Scevola, e fecero altri Imperadori degli altri Giureconsulti.

E nel vero chi attentamente considererà quel, che oggi è a noi rimaso dell'opere di questi Giureconsulti (poichè di coloro, che fiorirono ne' tempi della libera Repubblica poche cose ci restano) la maggior parte delle quali non so se dobbiamo dolerci di Giustiniano, che per quella sua compilazione ci tolse, ovvero lodarci di lui, perchè per le vicende e revoluzioni delle cose mondane, senza quella forse niente ne sarebbe a noi pervenuto; conoscerà chiaramente non solamente quanto fosse ammirabile la loro saviezza e dottrina, ma s'accerterà eziandio che niente dalla loro esattezza fu tralasciato per la deliberazione di quanto mai potesse occorrere, o nel Foro, o negli altri affari della Repubblica. Perciocchè a' Prammatici e Forensi si provvide abbastanza co' libri delle questioni e de' responsi, de' decreti, delle costituzioni, dell'epistole e de' digesti. A coloro che ne' Magistrati, ed all'ufficio di giudicare venivan assunti, erano ben pronti ed apparecchiati moltissimi libri degli ufficj de' vari Magistrati, e della loro autorità e giurisdizione. Quei che delle cose teoretiche eran vaghi per apprendere la disciplina legale, avevan abbondantissimi fonti, onde il loro desiderio potessero adempiere: trovavan chi con note pienissime a loro sponeva le leggi del Popolo romano i Senatusconsulti, gli Editti de' Magistrati, l'Orazioni, le Costituzioni de' Principi, ed i Responsi degli antichi Giureconsulti; e chi compilasse speciali trattati di quasi tutte le materie, che alla giurisprudenza potessero mai appartenere. Nè mancarono ancora i libri delle varie lezioni: e per ultimo, chi pensasse di ridurre a certo metodo ed ordine la giurisprudenza istessa, come oltre di quel che di se lasciò scritto Cicerone, lo ci dimostran l'iscrizioni de' loro volumi, che ragionevolmente oggi deploriamo, gli enchiridj, le pandette, le regole, le sentenze, le definizioni, i brevi, ed i libri delle instituzioni. In guisa che se il corso di tanti secoli e le funeste vicende del Mondo, siccome n'ha involati molti altri pregi dell'antichità, non ci avesse tolt'i libri ancora di così eminenti Giureconsulti, non avremmo certamente oggi bisogno dell'opere di coloro, che nella barbarie de' tempi a questi succedettero; o per meglio dire, non sarebbe stata data lor occasione di gravar la giurisprudenza di tanti nuovi ed insipidi volumi.

Nè minore alla prudenza e diligenza de' medesimi fu la dignità e l'eleganza dell'orazione. Egli è veramente cosa degna d'ammirazione, che l'eleganza del dire sia in tutti così uguale e perfetta, ancorchè non fiorissero in un tempo medesimo, ma distanti per secoli interi che niente si possa aggiungere o desiderare; e se vuole porsi mente al loro stile ed al carattere, non saprebbesi distinguere di leggieri a qual di loro dovesse darsi il primo luogo: ed è degno ancora da notarsi, ciocchè Lorenzo Valla e Guglielmo Budeo di questa ugualità e nettezza di parole e di sentenze de' loro libri parlando, lasciaron scritto, che se ad essi fu di maraviglia l'ugualità che nell'epistole di Cicerone s'osservava, quasi che non da molti, ma da un solo Cicerone fossero state scritte; maggiore senz'alcun dubbio era quella, che dall'opere di questi Giureconsulti raccolte nelle Pandette prendevano; siccome quelli i quali non in un istesso tempo, ma in tempi lontanissimi e per secoli distanti ebbero vita: poichè incominciando da Augusto infin a' tempi di Costantino M. sotto di cui pur furon in pregio Ermogeniano, Arcadio Carisio Aurelio e Giulio Aquila (le memorie de' quali anche da Giustiniano si veggono sparse ne' suoi cinquanta libri de' Digesti) corsero ben tre secoli, ne' quali, se appresso gl'Istorici Oratori e Poeti, e negli altri Scrittori osserviamo lunga differenza di stile, in questi Giureconsulti però fu sempre uguale e costante.

Non dovrà adunque sembrar cosa strana, se in decorso di tempo, (e precisamente sotto Valentiniano III.) acquistassero tanta autorità e forza le sentenze e l'opinioni di questi Giureconsulti, che dice Giustiniano essere stato finalmente deliberato, che i Giudici non potessero nel giudicare allontanarsi da' loro Responsi.

Ma poichè questo è un punto d'istoria, che non ben inteso ha cagionato in alcuni molti errori, però siami lecito avvertire che ciò non dee sentirsi, come han creduto alcuni, che quest'autorità l'acquistassero quando Augusto ingiunse di prender lettere da lui, quasi che consigliando per l'autorità dell'Imperadore, avessero i loro Responsi tanta forza ed autorità, sì che i Magistrati dovessero nel giudicare seguitargli. Ciò repugna a tutta l'istoria legale; poichè fin da' tempi della libera Repubblica fu data loro quest'autorità, ma nel caso solamente, come abbiam di sopra narrato, quando sopravveniva qualche difficile questione in Roma, ed essi univansi tutti insieme per disputarla e diffinirla, e quel che da loro risolvevasi in tali assemblee, era chiamato decretum, ovvero recepta sententia, ch'era una spezie di legge non iscritta, dalla quale non potevan certamente i Giudici allontanarsi nel decidere i piati: come quella che nel foro lungamente disputata e ricevuta, avea acquistata forza e vigore non inferior alle leggi medesime. Il che fu da poi anche praticato di qualche lor sentenza nel Foro ricevuta a' tempi d'Augusto, e sotto gli altr'Imperadori suoi successori. Ma è affatto repugnante al vero, che, senza questo, ogni semplice lor sentenza ed opinione avesse tosto che proferita, tanta autorità, sì che i Magistrati dovessero inviolabilmente seguitarla; e ciò tanto meno ne' tempi d'Augusto, quando le contese fra' Giureconsulti proruppero in manifeste fazioni, onde si renderono così famose le Sette de' Sabiniani, e de' Cassiani da una parte; e de' Proculejani, e Pegasiani dall'altra. Nè giammai queste contese si videro più ostinate, che sotto Augusto, quando la Repubblica cominciava a prender forma di Principato; poichè sotto il di lui imperio erano per una parte sostenute da Attejo Capitone discepolo d'Offilio; e per altra da Antistio Labeone, discepolo di Trebazio: sotto Tiberio, da Massurio Sabino, ch'ebbe per antagonista Nerva padre: sotto Cajo, Claudio e Nerone, da Cassio Longino, onde preser nome i Cassiani; e da Proculo, onde i Proculejani: sotto i Vespasiani, da Relio Sabino, onde sorsero i Sabiniani; e da Nerva figliuolo, e Pegaso, onde i Pegasiani. E sotto Trajano, Adriano, ed infin a' tempi d'Antonino Pio, furon dalla parte de' Sabiniani e Cassiani, Prisco, Javoleno, Alburnio, Valente, Tusciano e Salvio Giuliano: e da quella de' Proculejani e Pegasiani, Celso padre, Celso figliuolo e Prisco Nerazio.

E se bene dopo Antonino Pio fosse mancato il fervore di così acerbe contese, e le discordie non fossero cotanto ostinate, onde ne sorsero i Giureconsulti Mediani , i quali non volendo soffrire la servitù di giurare nelle parole de' loro maestri, prendessero altro partito non perciò cessarono le controversie e l'opinioni difformi, in guisa che fu d'uopo poi, che alcune si terminassero colle decisioni de' Principi. Nè Giustiniano, ancorchè si vantasse per quella sua compilazione aver tolte tutte queste dissensioni, potè molto lodarsi della diligenza del suo Triboniano, il quale se bene desse ciò ad intendere a quel Principe, non però moltissime ne scapparono dalla sua accuratezza, ed oggi giorno se ne veggono i lor vestigj nelle Pandette; tanto che coloro, i quali vivendo in tal pregiudicio per li vanti di Giustiniano, si dieder a credere non esservi in quella compilazione antinomia alcuna, quando poi s'abbattevano nella contrarietà di due leggi, sudavano ed ansavano per conciliarle, nè altra impresa in fine si trovavan avere per le mani, se non come suol dirsi Peliam lavare; ed in fatti sovente osserviamo Ulpiano di proposito discordar da Affricano, e così un Giurisconsulto dall'altro.

In tanta varietà di pareri, sarebbe sciocchezza il credere, che fosse a' Magistrati imposta necessità di seguire le coloro opinioni, toltone però quelle, che dopo lungo dibattimento fossero state nel Foro ricevute. E molto meno ne' tempi d'Augusto, e degli altri Imperadori infino a Costantino M., ne' quali presedevano Magistrati adorni di molte rade ed insigni virtù, e ad essi per la loro dottrina e prudenza era pur troppo noto, quali sentenze di Giureconsulti erano state nel Foro ricevute, e seguentemente quali dovessero rifiutare, e di quali tener conto ne' loro giudicj; senza che alla lor esperienza e sommo sapere nulla confusione potè mai recare la varietà dell'opinioni. La loro prudenza e dottrina, ed il fino giudicio non era inferior a quello de' Giureconsulti medesimi; poichè i Romani mostrarono la lor sapienza non pur nello stabilire le leggi e nell'interpretarle; ma conoscendo, come dice Pomponio, che non si sarebbe a bastanza provveduto a' bisogni de' cittadini colle sole leggi, e colle interpretazioni, che a quelle si davano da' Giurisconsulti, se non si deputassero ancora Giudici gravissimi, severi, incorrotti e sapientissimi, che potessero a ciascheduno render sua ragione, grandissima per tanto fu la cura e la diligenza, che posero a creare ottimi Magistrati. Onde ciò, che dice Giustiniano essersi deliberato, che i Giudici non potessero dalle opinioni e sentenze de' Giureconsulti allontanarsi, non dee attribuirsi nè ad Augusto, come credettero Cujacio ed altri, del quale certamente non può recarsi sopra ciò veruna costituzione, nè a niuno degli altr'Imperadori di quei tempi, ne' quali la giurisprudenza era nel colmo della sua magnificenza e grandezza: ma tener per fermo, che Giustiniano parlasse degli ultimi tempi, ed intendesse della costituzione di Valentiniano III. quando caduta già la giurisprudenza romana dal suo splendore, e mancati quei chiarissimi Giureconsulti, e quei gravi ed incomparabili Magistrati, e succeduta l'ignoranza delle leggi, delle sentenze e de' Responsi di quei lumi della giurisprudenza, si ridusse la bisogna in tanta confusione e disordine, che i Giudici per la loro dappocaggine non sapevan ciò, che dovessero farsi nel giudicare, e sovente dagli Avvocati eran con false allegazioni aggirati. Per riparar dunque a tanti mali, fu uopo a Valentiniano dar norma a' Giudici, e stabilir loro di quali Giureconsulti dovessero vedersi nel giudicare, e dalle sentenze de' medesimi non partirsi. Rifiutò le note da Paolo e da Ulpiano fatte a Papiniano (ma intorno a ciò fu da poi contraria la sentenza di Giustiniano), ordinò in oltre, che recitandosi diverse sentenze, dovesse vincere il maggior numero degli autori e se fosse il numero uguale, dovesse preporsi quella parte, per la quale era Papiniano: e per ultimo, che dovesse rimettersi alla moderazione ed arbitrio del Giudice, se le sentenze riuscissero in tutto pari. Tanto riparo ne' tempi di Valentiniano III fu mestiere darsi, ruinata già la legal disciplina: il che non era necessario ne' tempi di que' chiarissimi Giureconsulti infin al Gran Costantino, dove par che cessassero, dopo Modestino, Ermogeniano ed Arcadio Carisio, questi famosi oracoli di giurisprudenza; poichè alcun'altri, che fiorirono sotto di lui, e de' suoi figliuoli d'oscura fama, niente di preclaro diedero alla luce del Mondo, mancato già quell'antico e grave instituto dell'interpretazioni e de' Responsi; e solamente furono contenti nelle scuole insegnare ciò, che da quei primi si era scritto e trattato, come andrem appresso divisando.

Abbiamo riputato trattenerci alquanto in parlando di questi Giurisconsulti, e delle loro opere, solamente perchè il corpo delle leggi, che dopo Costantino vagò per l'Oriente e per l'Occidente era composto per la maggior parte delle loro sentenze; poichè delle leggi delle XII tavole, dopo l'incursione de' Goti in Italia, e 'l devastamento di Roma, nel qual tempo, al creder di Rittersusio, quelle si perderono, non ne fu tramandato altro a' posteri, che alcuni frammenti, i quali in Cicerone, Livio, Dionisio, Agellio e singolarmente in alcuni libri di questi Giureconsulti si leggono; e ciò che oggi di esse abbiamo, tutto si dee alla felicità de' nostri tempi e de' nostri avoli, ed all'industria d'alcuni valent'uomini, che le raccolsero ed interpretarono; fra' quali i primi furono Rivallio, Oldendorpio, Forstero, Balduino, Contio, Ottomano, Revardo, Crispino, Rosino, Pighio, ed Adriano Turnebo, a' quali succederono Teodoro Marcilio, Francesco Piteo, Giusto Lipsio e Corrado Rittersusio; ed ultimamente alla gran diligenza ed accuratezza di Giacomo Gottifredo dobbiamo, che nelle sue tavole, secondo che furono da' Decemviri composte, le ordinasse e disponesse. E dell'altre leggi, che dal Popolo romano furono da poi stabilite, de' Plebisciti, de' Senatusconsulti, e degli editti de' Magistrati, non altra notizia a' nostri maggiori ne pervenne, se non quella, che nell'opere de' riferiti antichi Scrittori, e sopra tutto ne' libri di questi stessi Giureconsulti si ritrova notato; nel che parimente fu ammirabile la diligenza degli Scrittori degli ultimi tempi, che con instancabile fatica l'andaron da' varj marmi e tavole, e da' ruderi dell'antichità raccogliendo; e stupenda certamente fu in ciò quella di Barnaba Brissonio, di Antonio Augustino, di Fulvio Ursino, di Balduino, di Francesco Ottomano, di Lipsio, e di molti altri amatori dell'antichità romana. Solamente de' volumi di questi Giureconsulti, che dopo Augusto fiorirono ne' tempi che a Costantino precedettero, era pieno il Mondo, e da' quali si regolavano i Tribunali; tanto che da poi ne' tempi di Valentiniano III per la lor confusione bisognò darvi provedimento; e ne' tempi, che seguirono, per la loro moltitudine fu data occasione a Giustiniano di far quella sua compilazione delle Pandette, che ne' seguenti secoli infino a dì nostri formarono una delle due parti più celebri della nostra giurisprudenza.

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