Delle Accademie.
Non solamente in questi fioritissimi tempi, e specialmente sotto l'Imperio d'Adriano, per tanti celebri Giureconsulti, e per la sapienza di questo Principe, per quel suo editto, e per le tante costituzioni degli altri savissimi Principi, era lo studio della giurisprudenza nel maggior suo splendore, e nel colmo della sua grandezza, ma lo rendevan ancor florido e rilevato le due celebri Accademie del Mondo, l'Ateneo di Roma in Occidente, e la Scuola di Berito in Oriente.
I. Dell'Accademia di ROMA in Occidente
Prima d'Adriano nell'inclita città di Roma non vi erano pubbliche Accademie. I Maestri nelle loro private stanze, ch'essi chiamavan pergole, insegnavano alla gioventù; ed i Giureconsulti stessi, oltre a quelle commendabili loro funzioni d'interpretare, scrivere, rispondere, consigliare, ed altre rapportate di sopra, avean ancora per costume nelle lor case insegnare a' giovani la ragion civile; e Cicerone racconta di se, ch'egli attese a questi studj sotto la disciplina di Q. Scevola figliuolo di Publio, ancorchè questi, com'e' dice, nemini ad docendum se dabat . Labeone così s'avea diviso l'anno, che sei mesi era in Roma frequentato da' studiosi, che andavan da lui ad apprender la legal disciplina, e sei altri mesi si ritirava in Villa a comporre libri, onde lasciò quattrocento volumi. Sabino, come anche narra Pomponio, poichè non era dei beni di fortuna abbastanza fornito, sovente da' suoi scolari era sovvenuto: huic nec amplae facultates fuerunt: sed plurimum a suis auditoribus sustentatus est; e così anche si praticava nell'altre professioni, siccome per le matematiche n'abbiamo il testimonio di Svetonio, e per la grammatica l'Autore del libro degl'illustri Grammatici.
Adriano fu il primo, che nella regione VIII del Foro romano fondò l'Ateneo, ove pubblicamente dovessero insegnarsi le discipline, e le lettere; e quel luogo, ch'è posto alle radici del monte Aventino, ancor oggi ritiene la memoria delle scuole de' Greci, imperocchè in esso si facea professione non meno della latina, che della greca eloquenza, e non meno i Retori, e Poeti latini, che i greci vi avevan il loro luogo. Fanno di questo Ateneo onorata memoria Dione, Lampridio, Capitolino, Gordiano, e Simmaco.
Alessandro Severo l'ampliò, e ridusse in forma più nobile. Stabilì il salario a' Retori, Medici, Grammatici, ed a tutti gli altri Professori. Instituì gli Auditori pubblici, ed assegnò ancora alcune rendite a' Studenti, figliuoli di poveri, pur che però fossero ingenui. I Romani di queste genti di lettere non facevan ordine a parte, ma le lasciavano mescolate nel terzo stato, e non avean tante persone, quante noi, che prendesser le lettere per professione e vocazione loro speciale: da poi quelle poche ch'essi n'aveano, le ridussero in milizie, le quali eran uffici quasi perpetui, di maniera che facevan di loro più stima, che noi, e di grandissimi privilegi onoravangli, come si vede nel Codice di Teodosio.
Or per la celebrità di questa famosa Accademia, concorrevano in Roma in gran numero i giovani da tutte le parti per apprender le buone lettere, e spezialmente la legal disciplina. Non eran sole queste nostre province, ch'oggi forman il Regno di Napoli, a mandar lor giovanetti a studiare in Roma, ma le province più remote e lontane eziandio; e non pur dalle Gallie, ma dalla Grecia, e dall'Affrica ancora ne venivano. Nelle nostre Pandette sono ancor rimasi alcuni vestigi, che n'accertano di quest'usanza di mandarsi in Roma i giovani a studiare: abbiamo un responso di Scevola, che diede a favor d'un giovane, che studiorum causa Romae agebat, rapportato da Ulpiano, il qual anche parla del viatico solito assegnarsi dai padri a' figliuoli quando gli mandavan in Roma a studiare: e questo medesimo Giureconsulto altrove fa anche memoria di quest'usanza di mandare i giovani a Roma a studiare, della quale ne fa altresì menzione Modestino, ed altri nostri Giureconsulti. E venivano, particolarmente per dare opera allo studio delle leggi, sin dalla Grecia i giovani in Roma; onde si rendè celebre anche perciò la sfacciata libidine di Domiziano, che imprigionò Arca avvenente fanciullo, il qual fin dall'Arcadia era venuto in Roma per apprender la giurisprudenza, solamente perchè con rado e memorando esempio non volle acconsentire alle sue impudiche voglie: di che il giovanetto appresso Filostrato tutto dolente accagionava suo padre, che potendo farlo instruire delle greche lettere in Arcadia, l'avea mandato in Roma per apprender le leggi. I Greci medesimi, che non sogliono esser paghi, se non di loro stessi, e delle cose proprie, pur furono costretti confessare, che dalle leggi romane solamente potevasi apprender una giusta e diritta norma di costumi; onde Dione Crisostomo orando presso a' Corinti, e volendo persuader loro, ch'egli essendo dimorato per lungo tempo in Roma appresso l'Imperador Trajano, avea sempre onestamente vivuto, di quest'argomento si valse: ch'egli stando in Roma, era stato in mezzo alle leggi, non potendo traviare, chi fra quelle conversava. Ne vennero anche dall'Affrica, come nei tempi più bassi testimonia d'Alipio l'incomparabil Agostino, del quale narra, che Romam processerat, ut jus disceret. Dalla Gallia, e dall'altre province occidentali in questi medesimi tempi men a noi lontani era frequente il concorso de' giovani in Roma per lo studio delle leggi. Di Germano Vescovo altissiodorense n'è testimone Errico altissiodorense in que' suoi versi. E Costanzo nella di lui vita pur dice: Post Auditoria Gallicana, intra Urbem Romam Juris scientiam plenitudini perfectionis adjecit. Rutilio Numaziano favellando di Palladio gentil giovane franzese, pur disse, ch'era stato mandato in Roma ad apprender legge.
E Sidonio Apollinare persuade Eutropio, che vada ad apprender giurisprudenza in Roma, che perciò chiamolla, domicilium legum. Onde non pur dagli Scrittori di questi tempi, ma anche de' tempi che seguirono, meritò Roma questi encomi, non solamente per la giurisprudenza, ma per l'eloquenza, e per tutt'altre discipline. Così leggiamo appresso Claudiano, Roma esser chiamata Armorum, Legumque parentem, quae prima dedit cunabula juris : ed altrove legum genitricem: appresso Simmaco, Latiaris facundiae domicilium : e così appresso Ennodio, Girolamo, Cassiodoro, e molt'altri Scrittori.
E fu cotanta la cura degl'Imperadori, ed il loro studio d'invigilar sempre al decoro e ristabilimento di quest'Accademia, ch'essendo, ne' tempi di Valentiniano il vecchio, Roma già caduta dal suo antico splendore, ed i giovani dati in braccio a' lussi, e ad ogni sorte di vizio, tanto che l'Accademia era molto scaduta dal suo instituto, ed introdotti in essa molti abusi, pensò questo Principe, di cui era molto grande la sollecitudine de' studj di Roma, riparare a cotali disordini, e promulgò quivi a tal effetto quella celebre costituzione, che dirizzò nell'anno 370. ad Olibrio Prefetto di quella città, parte della quale ancor si legge nel Codice Teodosio, ove stabilì undici leggi accademiche per rimediare a tanti abusi, delle quali in più opportuno luogo farem parola. Tanto che ristorata per queste leggi potè poi lungamente mantenere il suo lustro, e tirare a se, come innanzi, i giovani da tutte le parti d'occidente per apprender le lettere, e massimamente la Giurisprudenza. Così ne' tempi di Teodorico Ostrogoto vediamo ancor durare quest'usanza di mandarsi a Roma i giovani ad apprender le discipline; anzi volle questo Pincipe, che non dovesse concedersi licenza a' medesimi di far ritorno alle paterne case, se non compiuti in quella città i loro studj. In fatti negò tal licenza a Filagrio, ancorchè suo benemerito, il quale avendo mandat'in Roma a studiare alcuni suoi nipoti, e volendo richiamarli, ordinò a Festo, che non gli lasciasse partire, esagerando cotanto la stanza di Roma per li giovani: Nulli sit ingrata Roma, quae dici non potest aliena: illa eloquentiae faecunda mater: illa virtutum omnium latissimum templum . La negò parimente a Valeriano, il quale avea mandati li suoi figliuoli a Roma a studiare, e scrisse a Simmaco, che non lasciassegli partire. Questo medesimo instituto fu da poi continuato da Atalarico suo nipote, il qual imitando Valentiniano ne prese anche spezial cura e pensiero, e si legge ancora appresso Cassiodoro una lettera, che volle scrivere perciò al Senato di Roma, nella quale riordina i studj, e stabilisce i soliti stipendi per coloro, che militavano in quell'Accademia, nella quale oltre a' Grammatici, Oratori ed altri Professori, v'avevan ancora luogo gli Espositori delle leggi: onde per questo nuovo ristoramento potè da poi, eziandio ne' tempi più barbari, meritar Roma que' pregi e quegli encomj, che le danno più Scrittori di questa bassa età, raccolti dal Savarone sopra Sidonio Appolinare.
II. Dell'Accademia di BERITO in Oriente.
Berito è città posta nella provincia di Fenicia in Oriente, e fu cotanto benemerita a Teodosio il Giovane, che la decorò del titolo di metropoli della Fenicia, come Tiro, città per lo studio delle leggi non men celebre in Oriente, che Roma nell'Occidente; e siccome in Roma la legge civile era insegnata in latino, così a Berito in greco. Per la famosa accademia in essa stabilita fu chiamata la città delle leggi; e che riempieva perciò il Mondo delle medesime. Da chi quest'Accademia fosse stata instituita, non se ne sa niente di certo: quel che però non può pors'in disputa è, che fiorisse molto tempo prima di Diocleziano Imperadore, com'è manifesto da una costituzione di questo Imperadore, che si legge nel Codice di Giustiniano, indirizzata a Severino, e ad altri scolari dell'Arabia, i quali per apprender la disciplina legale dimoravan in Berito.
A questa città, come domicilio delle leggi, concorrevano i giovanetti di tutte le province dell'Oriente. Chiarissima testimonianza è quella, che ce ne dà Gregorio Taumaturgo Vescovo di Neocesarea nell'orazion panegirica ad Origene, ove narra aver egli appresa la giurisprudenza romana nell'Accademia di Berito, celebre per lo studio di tutte le professioni, ma singolarmente per quella delle leggi. Nè minore fu la fama di questa Accademia sotto Costanzo e Costante circa gli anni di Cristo 350. Il Geografo antico, (il qual Autore dobbiam noi alla diligenza dell'eruditissimo Giurisconsulto G. Gotifredo) che fiorì ne' tempi medesimi, parlando della città di Berito, e dell'Accademia delle leggi dice così, secondo l'antica traduzione latina: Berytus Civitas valde delitiosa, et Auditoria legum habens, per quae omnia judicia Romanorum. Inde enim viri docti in omnen orbem terrarum adsident Judicibus, et scientes leges custodiunt Provincias, quibus mittuntur legum ordinationes. Per ciò Nonno nelle Dionisiache diceva, che Berito riempieva la terra tutta di leggi. Eunapio ancora, che fiorì sotto Costanzo, Zaccaria Scolastico e Libanio, che visse sotto Valente, chiamano perciò Berito madre delle leggi. E ne' tempi dell'Imperador Valente fu tanto il concorso de' giovani a questa città per apprender le leggi, che Libanio stesso si duole essersi perciò tralasciato lo studio dell'eloquenza. Ed Agatia, favellando della ruina di Berito a cagione del tremuoto, che abbattè quasi tutta la città, afferma esservi accaduta strage grandissima de' cittadini, e di gran numero di coloro, che ivi dimoravano per apprender le leggi Romane. Finalmente il nostro Giustiniano pur nomò Berito città delle leggi, ed altrove, nutrice delle medesime; donde egli fece venir Doroteo ed Anatolio, perchè unitamente con altri avesser parte nella fabbrica de' Digesti, non concedendo licenza d'esplicar le leggi in Oriente ad altre Accademie, fuorchè a quelle di Berito, e di Costantinopoli (perchè questa si trovava ne' suoi tempi fondata già da Teodosio il Giovane l'anno 425.) siccome nell'Occidente a quella di Roma.
Vi furon ancora in questi tempi in alcune città d'Oriente altre Accademie, ove si professavan lettere, come in Laodicea, della quale Alessandro Severo fece menzione in una sua costituzione, che ancor oggi leggiamo nel Codice di Giustiniano. In Alessandria, intitolata il Museo, della quale parla Agatia; ed in Cesarea. Siccome in Occidente, oltre di quella famosa di Roma, alcune città avevan similmente le loro scuole, ove potevan i giovani apprender lettere. Nè la nostra Napoli ne fu priva, poichè, come dirassi quando dell'instituzione dell'Accademia napoletana favelleremo, Federico II. Imperadore non fu il primo, che da' fondamenti la ergesse, ma l'essere stata sempre questa città, come Federico stesso la chiama, antiqua mater, et domus studii , si mosse egli perciò a rinovar questi suoi antichi studj, e ad ingrandirli in una più nobile, e magnifica forma, innalzando l'Accademia napoletana sopra tutt'altre, e comandando perciò, che i giovani così di questo Regno, come di quello di Sicilia andassero in Napoli ad apprender le discipline, come più a lungo si diviserà, quando di tal ristoramento farem parola. Nè mancarono Scuole nell'altre città greche di queste nostre province, in quella maniera, che richiedeva il loro istituto; ma questi studj, allorchè fioriva Roma, rimasero tutti oscurati ed estinti, tosto che sorse l'Ateneo; e da poi avendo Roma riempiuto l'Imperio tutto delle sue leggi, le province d'Occidente mandavan i loro giovani in quella città, come lor madre, ad apprenderle; siccome quelle d'Oriente mandavangli a Berito. E si diede finalmente l'ultima mano alla ruina di tutte queste Scuole minori, quando Giustiniano a tre sole città concedè licenza d'esplicar le leggi, cioè all'una, e all'altra Roma, ed a Berito; non ad Alessandria, non in Cesarea, non alla perfine ad alcuna altra città dell'uno, o dell'altro Imperio.
Dell'Accademia di Costantinopoli non era qui luogo di favellare, come quella, che molto tempo da poi nell'anno 425. fu da Teodosio il Giovane instituita e ridotta nella sua forma; onde se ne darà saggio nel libro seguente di quest'istoria.
III.
Ecco in qual floridissimo stato erano queste nostre province ne' tempi, che a Costantino precedettero: quando ciascheduna città si studiava di comporre la sua politia e governo, ad imitazion di Roma, della quale vantavano essere piccioli simulacri ed immagini: quando secondo le sue leggi vivevano: e quando la giurisprudenza romana, ch'era la lor norma e regola, era giunta nel colmo e nella più alta stima, se si pon mente o a' favori de' Principi, o alla prudenza delle loro costituzioni, o alla sapienza de' Giureconsulti, o alla maestà dell'Accademie, e dottrina de' Professori, o alla probità de' Magistrati. Non è occulto, che alcuni pur troppo vaghi di novità, volendo rendersi per qualche stravaganza rinomati, non si sono ritenuti di biasimar le leggi romane come troppo sottili e ricercate, e che sovente s'oppongono al buon senso, ed al comunale intendimento degli uomini. Si è veduto ancora, chi ha voluto perciò prendersi briga d'andarle esaminando, con riprovarne alcune, come alla ragione ed all'equità contrarie. Altri ne dettaron particolari trattati, che vengon rapportati da Giorgio Pasquio: e fra' nostri volle anche tentarlo il Cardinal di Luca, che ne distese più discorsi. Ma ben si sarà potuto conoscere quanto costoro siano traviati; i quali col debole e corto lume de' loro ingegni han preteso affrontare una verità per tanti secoli conosciuta e professata da' maggiori uomini, che fiorirono quando il genere umano si vide in tant'elevamento ed eminenza, in quanta non fu mai per l'addietro, e che non sappiamo se mai potrà ritornare in quella sublimità, in cui fu ammirato mentre durò il roman Imperio. I Romani ci diedero le leggi savie e giuste, come per isperimento si conobbe ch'erano le più utili, conformi all'equità naturale, e adattate per la società civile ed all'umano commercio: che se fosse ad ognuno lecito farsi giudice sopra le leggi, ed a suo giudicio e capriccio dar regola a questa bisogna, vorrebbe ciascuno, fidando nel suo ingegno, sostenere al pari di chiunque altro la propria opinione; ed ecco i disordini e le confusioni, ed ecco alla per fine introdotto fra noi un deplorabile scetticismo. Solone perciò dimandato s'egli aveva date agli Ateniesi le più giuste e le più savie leggi, rispose, le migliori che si confacessero a' loro costumi, e le più acconce a' loro profitti; imperocchè la giustizia e la sapienza delle leggi non dipende da ragioni astratte e metafisiche, ma dall'utilità che recan a' popoli, al commercio ed alla vita civile: di che per più secoli ne diedero bastanti riprove le romane: onde avvenne che ruinato l'Imperio, non per questo ne' nuovi dominj in Europa stabiliti, cessò la maestà e l'uso delle medesime. L'utilità e l'onestà sono la norma delle leggi, e quelle saranno sempre le giuste, che riescono a' popoli utili ed oneste: ciò che meriterebbe un trattato a parte, non essendo del nostro instituto.
Altri vi sono, i quali empiono il Mondo di querele contra i Romani per la moltiplicità di tante leggi: questa querela non è nuova, ma molto antica, e fin da' tempi della libera Repubblica s'intese; tanto che Cesare, e Pompeo pensarono di darvi qualche compenso, con ridurre ad un cert'ordine la giurisprudenza romana: il che se non potè mai ridursi ad effetto da uomini sì illustri, molto meno s'è potuto da poi sperare dagli altri, come impresa affatto disperata ed impossibile, non che dura e malagevole. Ma queste querele, o quanto meglio farebbon costoro, se le scagliassero contra i depravati costumi degli uomini, contra la lor ambizione e dissolutezza, anzi che contro alle leggi: ben è egli vero che moltitudine di vizj e moltitudine di leggi si secondano, e si producono l'una l'altra quasi sempre; ond'è che Arcesilao soleva dire, che siccome dove sono molte medicine e molti medici, quivi sono infermità abbondanti, così dove abbondan le leggi, ivi essere ingiustizia somma; nulladimanco non è somma ingiustizia, nè sono molti vizj, perchè sieno molte leggi, ma ben sono molte leggi, perchè sono molti vizj. Per riparare a' corrotti costumi degli uomini, non v'era altro rimedio, che quello delle leggi. L'Imperio romano molto tempo prima avrebbe veduta la sua rovina, se di quando in quando la prudenza di qualche Principe non v'avesse dato riparo per mezzo delle leggi. Eran a' Romani sempre innanzi agli occhi molti domestici esempi, che gli ammonivano, niun altro freno esser più potente alla dissolutezza degli uomini, quanto le leggi. Sapevan benissimo, che fin da' primi tempi della loro Repubblica niente altro più ardentemente bramavasi dalla licenziosa gioventù romana, salvo che non esser governati dalle leggi, ma che dovesse al Re ogni cosa rimettersi, ed al suo arbitrio; nè ciò per altra cagione, se non per quella, che con molta eleganza vien rapportata da Livio: Regem, e' dicevano, hominem esse a quo impetres ubi jus, ubi injuria opus sit: esse gratiae locum, esse beneficio, et irasci, et ignoscere posse: inter amicum, et inimicum discrimen nosse. Leges, rem surdam, inexorabilem esse, salubriorem melioremque inopi, quam potenti; nihil laxamenti nec veniae habere, si modum excesseris: periculosum esse, in tot humanis erroribus, sola innocentia vivere. Sentimenti pur troppo licenziosi e dannevoli, e che dirittamente si oppongono a quel che insegnò Aristotele nella sua politica. Ove sia Repubblica senza vizj, certamente mal fa, chi vuol caricarla di leggi, siccome mal fa, chi ad un corpo sano vuol applicar medicamenti. Ma se quella, già data in preda a' lussi, minaccia rovina, non v'è altro riparo, che ricorrere alle leggi. E meglio in questi casi sarà, che nella Repubblica abbondino le leggi, le quali proveggano e s'oppongano ad ogni vizio, che rimetter tutto all'arbitrio de' Magistrati, il giudicio de' quali sta sottoposto agli affetti ed alle macchinazioni e tranelli de' litiganti.
Egli è pur vero, che alla corruttela de' costumi non si rimedia abbastanza colle leggi; ed in ciò non si può non commendare quel gravissimo ammaestramento di Bacone di Verulamio, che dovrebbon i Principi aver sempre innanzi agli occhi, dicendo egli che la maggiore lor cura e pensiero dovrebbe essere non tanto, come fanno, di rimediar agli abusi ed alle corruttele colle leggi, quanto d'invigilare su l'educazione de' giovani. Sopra il buono allevamento de' medesimi dovrebbon impiegare per mezzo delle leggi tutto il lor rigore; poichè in questa maniera in gran parte si scemerebbe il numero de' vizj e per conseguenza il numero delle leggi. Star tutt'intesi a ben ristabilire, e fornir di buoni instituti e di Professori l'Accademie e l'Università de' studj, ed in ciò porre ogni lor cura. Erasi negli ultimi nostri tempi cominciato a veder qualche riparo da' Collegj instituiti per la gioventù, nel che furon eminenti i Gesuiti. Ma par ora che scaduta già in quelli la prima disciplina, veggasi ancora andare scemando quell'antico fervore, e corrompersi sempre più ogni buon instituto. Richiederebbero veramente queste cose più tosto un Censore, che un Istorico, onde potendo fin qui bastare ciò che se n'è divisato come per un apparato delle cose che avranno a seguire, farem passaggio, dopo aver narrata la politia ecclesiastica di quest'età, a' tempi di Costantino, donde quest'istoria prende suo principio.