Della Politia Ecclesiastica dei tre primi secoli.
La nuova religione cristiana, che da Cristo Signor nostro cominciò ne' tempi di Tiberio a disseminarsi fra gli uomini, ci fece conoscere due potenze in questo Mondo, per le quali e' bisognava che si governasse, la spirituale, e la temporale, riconoscenti un medesimo principio, ch'è Iddio solo. La spirituale nel Sacerdozio, o stato ecclesiastico, che amministra le cose divine e sacrate: la temporale nell'Imperio, o Monarchia, o vero stato politico, che governa le cose umane e profane: ciascuna di loro avente il suo oggetto separato: i Principi perchè soprantendano alle cause del secolo: i Sacerdoti alle cause di Dio. Ciascuna ancora ha suo potere diverso e distinto; de' Principi il punire, o premiare con corporale pena, o premio: de' Sacerdoti con spirituale. In breve, a ciascuna fu dato il suo potere a parte: laonde siccome non senza cagione il Magistrato porta la spada, così ancora i Sacerdoti le chiavi del Regno de' Cieli.
Non così era prima presso a' pagani, i quali non riconoscevano nel Mondo queste due potenze infra loro separate e distinte; ma in una sola persona l'unirono: ond'è che i loro Re soli n'eran capi e moderatori: e la ragion era, perch'essi della religione si servivan per la sola conservazione dello Stato, e non la indirizzavano, come facciam noi, ad un altro più sublime fine. Così presso a' Romani il Pontificato Massimo lungo tempo durò nella stessa persona degl'Imperadori, e se bene avessero separati Collegi di Sacerdoti, a' quali la cura della lor religione era commessa, nientedimeno come che della medesima si servivano per la sola conservazione dello Stato, dovean per conseguenza le deliberazioni più gravi al Principe riportarsi, che n'era il Capo: istituto, che ad essi fu tramandato da' loro maggiori, appo i quali, come dice Cicerone, qui rerum potiebantur, iidem auguria tenebant; ut enim sapere, sic divinare, regale ducebatur. Quindi Virgilio del Re Annio cantò. Rex Anius, Rex idem hominum, Phoebique Sacerdos.
Appresso gli antichi Greci questo medesimo costume veggiamo, che ci rappresenta Omero, dove gli Eroi, cioè i Principi, eran quelli che facevan i sacrifizj: degli Ateniesi e di molte altre città della Grecia lo stesso narra Platone: appresso gli Etiopi, scrive Diodoro, che i Re eran i Sacerdoti: siccome ancora appresso gli Egizj narra Plutarco; ed appresso gli Spartani Erodoto.
Ma presso a' Cristiani la religione non è indirizzata alla conservazione dello Stato, ed al riposo di questo Mondo, ma ad un più alto fine, che riguarda la vita eterna, e che ha il suo rispetto a Dio, non agli uomini: e quindi presso di noi il Sacerdozio è riputato tanto più alto e nobile dell'Imperio, quanto le cose divine sono superiori all'umane, e quanto l'anima è più nobile del corpo e de' beni temporali. Ma dall'altra parte, essendo stata data da Dio la spada all'Imperio per governar le cose mondane, vien ad essere questa potenza più forte in se medesima, cioè a dire in questo Mondo, che non è la potenza spirituale data da Dio al Sacerdozio, al quale proibì l'uso della spada materiale; poscia che ha solamente per oggetto le cose spirituali, che non sono sensibili; ed il principale effetto della sua forza è riserbato al Cielo; come ce ne fece testimonianza l'istesso nostro buon Redentore, dicendo, il suo Reame non esser di questo Mondo, e che se ciò fosse, le sue genti combatterebbono per lui.
Riconosciute fra noi queste due potenze procedenti da un medesimo principio ch'è Iddio, da cui deriva ogni potestà, e terminanti ad un medesimo fine, ch'è la beatitudine, vero fine dell'uomo; è stato necessario, si proccurasse, che queste due potenze avessero una corrispondenza insieme, ed una sinfonia, cioè a dire un'armonia ed accordo composto di cose differenti, per comunicarsi vicendevolmente la loro virtù ed energia, dimanierachè se l'Imperio soccorre colle sue forze al Sacerdozio, per mantenere l'onor di Dio; ed il Sacerdozio scambievolmente stringe ed unisce l'affezion de' Popoli all'ubbidienza del Principe, tutto lo Stato sarà felice e florido: per contrario, se queste due potenze sono discordanti fra loro, come se il Sacerdozio abusandosi della divozion de' Popoli intraprendesse sopra l'Imperio, o governamento politico e temporale, ovvero se l'Imperio voltando contra Dio quella forza, che gli ha posta fra le mani, attentasse sopra il Sacerdozio, tutto va in disordine, in confusione ed in ruina.
Egli è Iddio, che ha messo quasi da per tutto queste due potenze in diverse mani, e l'ha fatte amendue sovrane in loro spezie, affinchè l'una servisse di contrappeso all'altra, per timore che la loro sovranità infinita non degenerasse in disregolamento, o tirannia. Così vedesi, che quando la sovranità temporale vuole emanciparsi contra le leggi di Dio, la spirituale le si oppone incontanente; e medesimamente la temporale alla spirituale: la qual cosa è gratissima a Dio, quando si fa per via legittima, e sopra tutto quando si fa direttamente e puramente per suo servigio, e per lo ben pubblico, non già per l'interesse particolare e per intraprender l'una sopra l'altra.
E poichè queste due potenze si rincontrano per necessità insieme in tutti i luoghi, ed in tutti i tempi, ed ordinariamente in diverse persone; e dall'altra parte tutte due sono sovrane in loro spezie, niente affatto dipendendo l'una dall'altra; l'infinita Sapienza per evitare il disordine estremo, che nasce inevitabilmente dalla loro discordia, ha piantati limiti sì fermi, ed ha messe separazioni sì evidenti fra loro, che chiunque vorrà dare, benchè piccol luogo alla ragione, non si potrà ingannare nella distinzione delle loro appartenenze; poichè qual cosa è più facile a distinguere, che le cose sacrate dalle profane, e le spirituali dalle temporali? Non bisogna dunque, se non praticare questa bella regola, che il nostro Redentore ha pronunciata di sua propria bocca, Reddite quae sunt Caesaris Caesari, quae sunt Dei Deo. Regolamento assai breve, ma per certo assai netto e chiaro, perchè quando la cura dell'anime, e delle cose sacrate appartiene al Sacerdozio, egli bisogna, che il Monarca stesso se gli sottometta in ciò, che concerne direttamente la religione ed il culto di Dio, se sente d'avere un'anima, e se vuol essere nel numero de' figliuoli di Dio e della Chiesa; chiaro e famoso è l'esempio dell'Imperador Teodosio, il quale alla censura d'un semplice Arcivescovo si rendè, ed adempiè la penitenza pubblica, che gli era stata da colui ingiunta: l'attesta ancora l'esempio di Davide, Qui et si regali unctione Sacerdotibus, et Prophetis praeerat in causis saeculi, tamen suberat eis in causa Dei .
Reciprocamente ancora, poichè la dominazion delle cose temporali appartiene a' Principi, e la Chiesa è nella Repubblica, come dice Ottato Milevitano, e non già la Repubblica nella Chiesa, bisogna che tutti gli Ecclesiastici, ed anche i Prelati della Chiesa ubbidiscano al Magistrato secolare in ciò ch'è della politia civile. Si omnis anima potestatibus subdita est, ergo et vestra (dice S. Bernardo ad Errico Arcivescovo di Sens) quis vos excepit ab Universitate? Certe, qui tentat excipere, tentat decipere; e S. Gio. Grisostomo sponendo il passo di S. Paulo: Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita est, dice, etiam si fueris Apostolus, Evangelista, Propheta, Sacerdos, Monachus, hoc vero pietatem non laedit . In breve, il Papa S. Gregorio il Grande: Agnosco, dice, Imperatorem a Deo concessum non militibus solum, sed et Sacerdotibus etiam dominari.
Poichè dunque la distinzione di queste due potenze è tanto importante, egli è stato ben necessario dar loro nomi differenti, cioè coloro, i quali hanno la potenza ecclesiastica, sono chiamati Pastori e Prelati; e gli altri, che possedono la temporale, sono particolarmente nominati Signori o Dominatori. Appellazione, ch'è interdetta agli Ecclesiastici di propria bocca di N. S. il quale in due diversi tempi, cioè nella domanda de' figliuoli di Zebedeo, e nel contrasto di precedenza sopravvenuto fra' suoi Apostoli, poco avanti la sua santa passione, reiterò loro questa lezione: Principes gentium dominantur eorum, vos autem non sic, etc. Lezion che S. Pietro ha ben raccolta nella sua prima lettera, dicendo a' Vescovi: Pascite, qui in vobis est, gregem Dei non ut Dominantes in Cleris, sed forma facti gregis, cioè a dire, stabilito in forma di greggia, il cui pastore non è il signore e proprietario, ma il ministro e governatore solamente. Così Dio gli dice: Pasce oves meas, e non già tuas .
Ed in verità la potenza ecclesiastica essendo diretta sopra le cose spirituali e divine, che non sono propriamente di questo Mondo, non può appartenere a gli uomini in proprietà, nè per diritto di signoria, come le cose mondane, ma solamente per esercizio ed amministrazione, fin a tanto che Iddio (il qual solo è il Maestro, e signore delle nostre anime) commette loro questa potenza soprannaturale, e per esercitarla visibilmente in questo Mondo sotto suo nome, ed autorità, come suoi Vicarj e Luogotenenti, ciascuno però secondo il suo grado gerarchico, appunto come nella politia civile più Ufficiali, essendo gli uni sotto gli altri, esercitano la potenza del Sovrano Signore.
Tutto ciò si dice per ispiegare la proprietà de' termini del soggetto della presente opera, non già per diminuire in parte alcuna la potenza ecclesiastica, la quale per contrario riferendosi direttamente a Dio, dee essere stimata ben più degna di quella de' Principi della Terra i quali ancora non avean nel principio la loro, che per ufficio e per amministrazione, appartenendo la Sovranità, o per meglio dire la libertà perfetta allo Stato in corpo. Così in que' tempi erano pur essi chiamati Pastori de' Popoli, come vengon qualificati da Omero: ma l'oggetto della lor potenza, che consiste nelle cose terrene, essendo adattato a ricever la signoria, o potenza in proprietà, essi l'hanno da lungo tempo guadagnata, ed ottenuta in tutti i paesi del Mondo: de' quali molti parimente ve ne sono, dove essi han ottenuto non solamente la Signoria pubblica, ma ancora la privata, riducendo il lor Popolo in ischiavitudine.
Non si possono ritrovar pruove più considerabili della distinzione di queste due maniere di potestà, nè più solenni esempj del cambiamento della potestà per ufficio e per esercizio, in quella di proprietà e per diritto di signoria, che in quel che accadde nel Popolo di Dio, quando annojato d'esser comandato da' Giudici, ch'esercitavano sopra di lui la sovranità per ufficio ed amministrazione assolutamente, egli volle avere un Re, il quale da allora innanzi avesse la sovranità per diritto di signoria. Ciò che dispiacque grandemente a Dio, il quale disse a Samuello ultimo de' Giudici, essi non hanno te ricusato, ma me, affinchè io non regni più sopra loro: e poco da poi: Tale sarà il diritto del Re, etc. . Il che significa, che Iddio stesso era il Re di questo Popolo, ed aveva sopra lui la proprietà e la potenza, allorchè era governato da semplici Giudici o Ufficiali; ma che ciò non sarà più, quando avrà un Re, il quale s'abuserà di questa potenza in proprietà. Bella instruzione agli Ecclesiastici di lasciare a Dio la proprietà della potenza spirituale, e contentarsi dell'esercizio di quella, come suoi Vicarj e suoi Luogotenenti, qualità la più alta e la più nobile, che potesse esser sopra la terra.
Ecco la distinzione della potenza spirituale e della temporale, che ben dimostra, che l'una non include e non produce l'altra, medesimamente non è superiore all'altra; ma che amendue sono o sovrane, o subalterne in diritto loro, e in loro spezie.
Ma nientedimeno questa distinzione non impedisce, che l'una e l'altra non possano risiedere in una istessa persona, e talora, ch'è più, a cagion d'una medesima dignità. Tuttavolta bisogna prender cura, che quando esse risiedono nella medesima dignità, fa mestiere, che ciò sia una dignità ecclesiastica, e non già una signoria, o ufficio temporale; poichè la potenza spirituale essendo più nobile della temporale, non può dipendere, nè essere accessoria a quella, siccome non può appartenere agli uomini laici, a' quali appartengono ordinariamente le potenze temporali, e sopra tutto la potenza spirituale non può tenersi per diritto di signoria, nè deferirsi per successione, nè possedersi ereditariamente, come le signorie temporali.
Donde siegue, per dir ciò di passaggio, che è errore contro al senso comune d'aver in Inghilterra voluto attribuire al Re, o alla Reina la sovranità della Chiesa anglicana, in quel modo, che se l'attribuisce la temporalità del suo Reame, quasi fosse da questa dependente: ebbe ciò suo cominciamento da collera, e da una particolar indegnazione d'Errico VIII. contra 'l Papa, il qual negò d'approvare il di lui divorzio, di che prese egli tanto sdegno, che ricusò per l'innanzi di pagargli più quel tributo, che lungo tempo avanti si pagava in Inghilterra; e quel ch'è più, seguendo lo sfrenato impeto dell'ira, si dichiarò Capo della Chiesa anglicana immediatamente dopo Gesù Cristo, e costrinse il suo Popolo a giurare, che lo riconosceva Signor sovrano tanto nelle cose spirituali, che temporali: error, che apparve poi visibilmente, quando la Reina Elisabetta sua figliuola venne a regnare; imperocchè si vide allora una femmina per Capo della Chiesa anglicana, e la sovranità spirituale caduta nella conocchia.
Ora, benchè per qualche tempo queste due potenze sieno state nelle medesime persone fra il Popolo di Dio, cotesto però si fece in modo, che la temporale era sempre accessoria al Sacerdozio; ma da poi che il Popolo volle esser dominato da' Re, questi Re non ebbero la potenza spirituale: e se pur talora la vollero essi intraprendere, ne furon aspramente puniti da Dio, come è manifesto per l'istoria d'Ozia: ed in quanto a' Pagani, s'è già veduto, che in più Nazioni i Re sono stati Sacerdoti, sottomettendo la religione allo Stato, e non se ne servivano, che in quanto ella era necessaria allo Stato: ma noi instruiti in migliori scuole, abbiam'appreso di preferire la religione, c'ha il suo rispetto a Dio, e riguarda la vita eterna, allo Stato, che non riflette, se non agli uomini, ed al riposo di questo Mondo. Ma non vi è però alcun inconveniente, nè repugnanza, che la potenza temporale sia annessa, e rendasi accessoria e dependente dal Sacerdozio, come ne' seguenti libri di quest'Istoria osserveremo nella persona del Pontefice romano, e negli altri Prelati della Chiesa: non già perchè fosse stata prodotta dalla sovranità spirituale, e fosse una delle sue appartenenze necessarie, ma si è da loro acquistata di volta in volta per titoli umani, per concessioni di Principi, o per prescrizioni legittime, non già Apostolico Jure, come dice S. Bernardo; nec enim ille tibi dare, quod non habebat, potuit.
Ecco il rincontro di queste due potenze in sovranità independenti l'una dall'altra, e riconoscenti un sol principio, ch'è Iddio, distinte con ben fermi limiti per propria bocca del nostro Salvatore, in guisa che l'una non ha che impacciarsi coll'altra.
§. I. Politia Ecclesiastica de' tre primi secoli in Oriente.
Riconoscendo noi adunque per la religione cristiana nel Mondo queste due potenze, bisognerà che si narri ora, come la spirituale fosse cominciata ad amministrarsi fra gli uomini, e come perciò tratto tratto nell'Imperio, ed in queste nostre province si fosse stabilita la politia, e lo stato ecclesiastico, che ne' secoli seguenti portò uno de' maggiori cambiamenti dello stato politico, e temporale di questo Reame.
In que' tre primi secoli dell'umana redenzione, prima che da Costantino Magno si fosse abbracciata la cristiana religione, non potrà con fermezza ravvisarsi nell'Imperio alcuna esterior politia ecclesiastica. Gli Apostoli ed i loro successori intenti alla sola predicazione del Vangelo, non molto badarono a stabilirla; e ne furon impediti ancora dalle persecuzioni, che gli costringevano in privato e di soppiatto a mantenere l'esercizio della loro religione fra' Fedeli.
Il nostro buon Redentore adunque, dovendo ritornar al Padre, che lo mandò in questo Mondo per mostrarci una più sicura via di nostra salute, volle, dopo averci dati tanti buoni regolamenti, lasciare in terra suoi Luogotenenti, a' quali questo potere spirituale comunicò, perchè come suoi Vicarj mantenessero e promulgassero da per tutto la sua religione. E volle valersi, non già del ministero degli Angioli, ma piacendogli innalzare il genere umano, volle eleggere per più profondi misteri non i più potenti uomini della terra, ma i più vili ed abbietti; volendo con ciò darci un'altra nota di distinzione tra queste due potenze, che l'una non riguarda nè stirpe, nè altri pregi, che il Mondo stima, ma solamente lo spirito, non il sangue e gli altri umani rispetti. Lasciò per tanto questa potenza agli Apostoli suoi cari discepoli, i quali, mentre egli conversò fra noi in terra, lo seguirono; a' medesimi diede incumbenza d'insegnare e predicare la sua legge per tutto il Mondo; e diè loro il potere di legare e sciorre, come ad essi pareva, impegnando la sua parola, che sarebbe sciolto in Cielo, quel ch'essi prosciogliessero in terra, e legato quel che legassero.
Gli Apostoli ancorchè riconoscessero per lor Capo S. Pietro, nel principio a tutt'altro pensarono, che a stabilire un'esterior politia ecclesiastica, poichè intenti solamente alla predicazion del Vangelo, ed a ridurre l'uman genere alla credenza di quella religione, ch'essi procuravano di stabilire, e di stenderla per tutte le province del Mondo, non badarono, che a questo solo: si sparsero perciò e s'incamminarono per diverse parti, ove più il bisogno, ovvero l'occasione gli portava. Le prime province furon quelle d'Oriente, come più a Gerusalemme ed alla Palestina vicine: scorsero in Antiochia, in Ismirna, in Efeso, in Alessandria e nell'altre città delle province d'Oriente, nelle quali fecero miracolosi progressi, riducendo que' Popoli alla vera credenza: nel che non molto venivano frastornati ed impediti dagli Ufficiali dell'Imperio, poich'essendo queste province lontane da Roma, capo e sede degl'Imperadori, non erano così da presso i loro andamenti osservati; onde poterono stabilire in molte città di quelle province la religione: e fare in più luoghi più unioni di Fedeli, ch'essi chiamaron Chiese. Ma in questi principj, come dice S. Girolamo, fondate ch'essi avevano nelle città le Chiese, erano quelle governate dal comun consiglio del Presbiterio, come in Aristocrazia. Da poi cresciuto il numero de' Fedeli, e cagionandosi dalla moltitudine confusioni e divisioni, si pensò, per ovviare a' disordini, di lasciare bensì il governo al Presbiterio, ma di dar la soprantendenza ad uno de Preti il qual fosse lor Capo, che chiamaron Vescovo, cioè a dire, Inspettore, il quale collocato in più sublime grado, avea la soprantendenza di tutti i Preti, ed al quale apparteneva la cura ed il pensiero della sua Chiesa, governandola però insieme col Presbiterio: tanto che 'l governo delle Chiese divenne misto di monarchico ed aristocratico, onde Pietro di Marca ebbe a dire, che il governo monarchico, della Chiesa veniva temperato coll'aristocratico.
Alcuni han voluto sostenere, che in questi primi tempi il governo e politia delle Chiese fosse stato semplice e puro aristocratico presso a' Preti solamente, niente di più concedendo a' Vescovi, che a' Preti, non reputandogli di maggior potere ed eminenza sopra gli altri: ma ben a lungo fu tal errore confutato dall'incomparabile Ugone Grozio; ed il contrario ci dimostrano i tanti cataloghi de' Vescovi, che abbiamo appresso Ireneo, Eusebio, Socrate, Teodoreto ed altri, da' quali è manifesto, che fin da' tempi degli Apostoli ebbero i Vescovi la soprantendenza della Chiesa, e collocati in più eminente grado soprastavano a' Preti, come loro Capo. Così, non parlando de' Vescovi di Roma come cosa a tutti palese, in Alessandria, morto che fu S. Marco Evangelista, il qual soprastava a quella Chiesa, narra San Girolamo, che i Preti sempre ebbero uno, che eleggevan per loro Capo, et in celsiori gradu collocatum. Episcopum nominabant. Morì S. Marco nell'anno 62 della fruttifera incarnazione, e nell'ottavo anno dell'Imperio di Nerone: e dopo lui fu in suo luogo rifatto, vivendo ancora S. Giovanni Apostolo, Aniano; ad Aniano succedette nel governo di quella Chiesa Abilio; ad Abilio, Cerdone; e così di mano in mano gli altri. In Antiochia, Evodio, Ignazio, ec. In Gerusalemme, vivente ancor S. Giovanni, dopo la morte di S. Giacomo, tennero il Vescovato di quella città, Simone, Giusto, ec. In Ismirna dagli Apostoli stessi, cioè da S. Giovanni, fu preposto a' Preti per Vescovo Policarpo, che governò quella Chiesa fin ad un'età provetta. Così ancora la Chiesa d'Efeso, ancorchè amministrata da' Preti, a costoro però uno era, che presedeva, e dopo Timoteo, ne fu per qualche tempo Capo S. Giovanni medesimo: detto perciò Principe del Clero, ed Angelo della Chiesa: succedettero quindi Tito ed altri in appresso; tanto che nel Concilio di Calcedonia per bocca di Leonzio Magnesiano leggiamo: A Sancto Timotheo, usque nunc XXVII. Episcopi facti, omnes in Epheso ordinati sunt.
Nè dovrà sembrar cosa strana, per dir ciò di passaggio, che gli Evangelisti, il cui impiego era d'andar girando per le province dell'Imperio, e predicare il Vangelo, avessero potuto essere Vescovi d'alcune città; poichè, come ben avvisa Ugon Grozio, essi avean anche per costume di fermarsi in qualche luogo ove scorgevano, che la loro più lunga dimora potesse essere di maggior profitto: e fermati adempievano tutte le parti d'un buon Vescovo, presedendo al Presbiterio. E per questa cagione noi leggiamo, che gl'istessi Apostoli furono Vescovi d'alcune città, perchè in quelle lungamente dimorati aveano governate le loro Chiese, come tutti gli altri Vescovi, da essi in altre città instituiti, facevano.
Così col correr degli anni, disseminata la religion cristiana per tutte le province dell'Imperio, ancorchè mancassero gli Apostoli, succedettero in lor luogo i Vescovi, i quali, soprastando al Presbiterio, ressero le Chiese: e si videro perciò nelle città costituiti i Vescovi, come dice S. Cipriano: Jam quidem per omnes Provincias, et per Urbes singulas constituti sunt Episcopi. Onde da poi fu stabilmente costituito, che nel governo delle Chiese uno de' Preti dovesse soprastare agli altri, ed al quale dovesse appartenere la cura della Chiesa, come testifica S. Geronimo: In toto Orbe decretum est, ut unus de Presbyteris electis caeteris superponeretur, ad quem omnis cura Ecclesiae pertineret.
Egli è però vero, che quantunque S. Cipriano dica, che in ciascheduna città fosse stato il Vescovo instituito, si sa nondimeno che moltissime non l'ebbero, e furon governate e rette dal solo Presbiterio; poichè gli Apostoli non in ogni Chiesa instituirono i Vescovi, ma molte ne lasciaron al solo governo del Presbiterio, quando fra essi non v'era alcuno, che fosse degno del Vescovato, come dice S. Epifanio: Presbyteris opus erat, et Diaconis, per hos enim duos Ecclesiastica compleri possunt; ubi vero non inventus est quis dignus Episcopatu, permansit locus sine Episcopo; ubi vero opus fuit, et erant digni Episcopatu, constituti sunt Episcopi. E quelle Chiese, che rimanevan senza Vescovo, dice S. Girolamo, che communi Presbyterorum consilio gubernabantur. Così di Meroe città dell'Egitto testifica S. Atanasio, che fino ai suoi tempi non avea avuto Vescovo, e si governava dal solo Presbiterio: e così di molte altre città dell'Imperio testificano molti Scrittori di que' tempi.
Tale fu la politia in questi primi secoli dello stato ecclesiastico, nè altra gerarchia si ravvisò, nè altri gradi distinti, se non di Vescovi, Preti e Diaconi, i quali come loro Ministri teneano anche cura dell'oblazioni, e di ciò che al sacro ministero era necessario. Questi componevano un sol Corpo, di cui il Vescovo era Capo, e gli altri Ministri, o meno o più principali erano i membri, ed era come un Consiglio o Senato del Vescovo, che insieme con lui governava la Chiesa. Quindi S. Girolamo ragionando de' Vescovi, dicea che anche quelli aveano il lor Senato, cioè il ceto de' Preti; siccome anche dicea San Basilio; ed Ignazio scrivendo a' Tralliani affermava, che i Preti fossero i Consiglieri del Vescovo, gli Assessori di quello, e che dovessero riguardarsi come succeduti in luogo del Senato Apostolico: quindi era che S. Cipriano non soleva trattar cos'alcuna di momento senza l'intervento o consiglio de' suoi Preti e Diaconi, come si raccoglie dalle sue epistole.
Alcuni credettero, che questa politia di dar la soprantendenza a' Vescovi e superiorità su i Preti fosse stata introdotta anche ad esempio de' Gentili, appresso i quali nel Sacerdozio parimente si notavano più gradi; e si vede ciò non solamente essersi praticato da' Greci e da' Romani, ma essere stata anche disciplina antichissima de' Druidi nella Gallia, come narra Cesare ne' suoi Commentarj: Druidibus praeest unus, qui summam inter eos habet authoritatem. Presso a' Burgundi fuvvi ancora il Sacerdote massimo, come narra Marcellino, e nella Repubblica giudaica questo stesso costume approvò anche Iddio S. N. quando a tutti i Sacerdoti prepose uno di maggiore autorità.
Ma quantunque fosse ciò probabile, e che a loro imitazione si fosse instituito tal ordine, nulladimanco dovrà sembrare a ciascuno più verisimile ciò che Grozio suspica, essersi questa politia introdotta ad esempio delle Sinagoghe degli Ebrei, delle quali par chè le Chiese fondate dagli Apostoli fossero simulacri ed immagini: ed in fatti osserviamo, che in molti luoghi le Sinagoghe erano senz'imperio, siccome la Chiesa da se non ha imperio alcuno, e tutta la sua potenza è spirituale; si vede ancora, che gli Apostoli predicando per la Palestina e per le province d'intorno il Vangelo, trovavano in que' tempi molte Sinagoghe ben instituite fin da' tempi della dispersione babilonica: e ricevendo queste per la predicazione degli Apostoli la fede di Cristo, giacchè ad esse prima d'ogn'altro fu predicato l'Evangelo, non vi era cagione, perchè dovessero mutar politia, ed allontanarsi da quella, che l'esperienza di molti secoli aveva approvata e commendata per buona; si aggiungeva ancora, che riusciva agli Apostoli più acconcia al loro fine, perchè in cotal guisa, dovendo disseminar una nuova religione nell'Imperio gentile, si rendeva la novità meno strepitosa, nè dava tanto su gli occhi agli Ufficiali dell'Imperio, a' quali poco importava, che niente mutandosi della lor esteriore politia, le Sinagoghe divenissero Chiese; e fondandosi altrove altre Chiese, perchè all'intutto conformi agl'instituti giudaici, a' quali già essi s'erano accomodati, picciola novità loro s'arrecava nè tanta che potesse turbar lo stato civile dell'Imperio. Così in ogni Sinagoga essendovi uno, il qual soprastava agli altri, che chiamavan il Principe, in suo luogo sostituirono il Vescovo: erano in quelle i Pastori, ed a costoro succedettero i Preti: v'eran ancora gli Elemosinieri, i quali avean in gran parte corrispondenza co' Diaconi.
§. II. Politia ecclesiastica in Occidente, ed in queste nostre regioni.
Sparsa intanto per le province d'Oriente questa nuova religione, ed avendo in quelle parti avuto mirabili progressi, si procurò anche stabilirla nell'Occidente. Alcuni degli Apostoli, e molti loro discepoli s'incamminaron perciò verso queste nostre regioni. Narrasi che S. Pietro stesso lor Capo, lasciando la Cattedra d'Antiochia, avendo instituito Vescovo in quella Chiesa Evodio, navigasse con molti suoi discepoli verso Italia per passare in Roma: che prima approdasse in Brindisi, quindi ad Otranto, e di là a Taranto, nella qual città vi predicasse la fede di Cristo, con ridurre molti di que' cittadini alla nuova credenza, e vi lasciasse Amasiano per Vescovo. Alcuni anche han voluto, che visitasse eziandio Trani, Oria, Andria, e per l'Adriatico navigasse infino a Siponto; indi voltando le prore indietro, costeggiando i nostri lidi capitasse a Reggio, nelle quali città piantasse la religione cristiana: poi da Reggio partitosi con suoi compagni, navigando il mar Tirreno, e giunto nel nostro mare, riguardando l'amenissimo sito della città di Napoli, determinossi di sbarcarvi per ridurla alla vera credenza: e qui vogliono, che incontratosi nella porta della città con una donna chiamata Candida, molti prodigi con lei e con suo fratello Aspreno adoperasse, di che mossi i Napoletani, riceverono da lui il battesimo, e prima di partirsi per Roma, instituisse Vescovo di questa città Aspreno, che fu il primo. Narrasi ancora, che in questo passaggio medesimo S. Pietro s'innoltrasse insino a Capua, e che dopo aver ridotta questa città, vi lasciasse per Vescovo Prisco, uno degli antichi discepoli di Cristo nella cui casa fece apparecchiar la Pasqua, e nel Cenacolo cibossi co' suoi discepoli. Che in oltre essendosi portato fin ad Atina, città ora distrutta, v'avesse istituito Marco per Vescovo: e finalmente prendendo il cammino per Roma nel passar per Terracina, avesse quivi ordinato Vescovo Epafrodito. I Baresi similmente pretendono, che S. Pietro in questo passaggio, non meno che a Taranto ed Otranto, fosse capitato anche in Bari. I Beneventani che pure ad essi avesse lasciato il primo Vescovo Fotino. Que' di Sessa pretendono il medesimo, e che avesse lor dato Simisio per Vescovo. In brieve, se si vuol attendere a sì fatte novelle, non vi riman città in queste nostre regioni, che non pretenda avere i suoi Vescovi instituiti, o da S. Pietro o dall'Apostolo Paolo, come vanta Reggio del suo primo Vescovo Stefano, o da gli settantadue discepoli di Cristo nostro Signore, o finalmente dai discepoli degli Apostoli. In fatti Pozzuoli tiene il suo primo Vescovo essere stato Patroba de' 72 discepoli, e discepolo di S. Paolo, del quale egli fa menzione nell'epistola a' Romani, e che ordinato Vescovo da S. Pietro, capitato in Pozzuoli, vi seminasse la fede cristiana.
Narrasi ancora, che questa prima volta giunto S. Pietro in Roma, bisognò che tosto scappasse via, a cagion de' rigorosi editti, ch'avea allora pubblicati l'Imperador Claudio contra gli Ebrei, volendo che tutti uscissero di Roma. Che ritornato perciò in Gerusalemme, dopo avere ordinati molt'altri Vescovi nelle città d'Oriente, se ne venisse di nuovo in Italia per passare la seconda volta in Roma; e che in questo secondo passaggio capitando nella Villa di Resina presso a Napoli, e quivi colle sue predicazioni convertendo e battezzando quella gente, vi lasciasse Ampellone per meglio instruirli nella fede di Cristo: donde ritornato poscia in Napoli, fu da Aspreno e da' Cristiani napoletani ricevuto con infiniti segni di stima e di giubilo, fondandovi una Chiesa: e che in questo secondo passaggio scorresse per molte altre città della Puglia. Indi passato in Roma, stabilisse in quella città la sua Sede, ordinandovi Vescovo Lino, il quale dopo patito il martirio, ebbe per successore Clemente, indi Cleto, ed Anacleto, e gli altri Vescovi, secondo il catalogo, ch'abbiamo de' Vescovi di Roma.
Altri all'incontro con un sol fiato han preteso mandar a terra tutti questi racconti, e rendergli favolosi: poichè si sono impegnati con pari temerità, che pertinacia, a sostenere che S. Pietro non solamente non fosse capitato in queste nostre parti, ma sfacciatamente han ardito d'affermare, che nemmen fosse stato in Roma giammai. Il più impegnato per questa parte, si vede esser Salmasio, il quale contra ciò che credettero i Padri antichi della Chiesa, e ciò che a noi per antica tradizione fu tramandato da' nostri maggiori, vuol egli per ogni verso che S. Pietro non fosse mai stato a Roma; ponendo in disputa quel, che con fermezza ha tenuto sempre e costantemente tiene la Chiesa: il che diede motivo a Giovanni Ovveno di credere falsamente, che rimanesse questo punto ancor indeciso.
An Petrus fuerit Romae, sub Judice lis est.
Ma che che sia di questa disputa, la quale tutta intera bisogna lasciarla agli Scrittori ecclesiastici, che ben a lungo hanno confutato quest'errore: a noi, per quello che richiede il nostro instituto, basterà, che sia incontrastabile, che o da S. Pietro stesso, o da gli Apostoli, ovvero da' loro discepoli, o da altri lor successori, fosse stata in molte città di queste nostre regioni introdotta la religione cristiana, e fondate molte Chiese, o sien unioni di Fedeli, ed instituiti perciò molti Vescovi, assai prima che da Costantino M. si fosse abbracciata la religione nostra, cioè ne' tre primi secoli dell'umana Redenzione. Si rende tutto ciò manifesto, non pure da' frequenti e spessi martirj, che seguiron in queste nostre regioni, ma da' cataloghi antichi, che ancor ci restano de' Vescovi di molte città. Napoli prima di Costantino M. ne conta moltissimi: Aspreno, Epatimito, Mauro, Probo, Paolo, Agrippino, Eustazio, Eusebio, Marciano, Cosma, ed altri. Capua novera ancora i suoi, Prisco, Sinoto, Rufo, Agostino, Aristeio, Proterio e Proto. Nola, Felice, Calionio, Aureliano e Massimo. Pozzuoli, Patroba, Celso e Giovanni. Cuma, Mazentio. Benevento anche ha i suoi, fra i quali il famoso Gennaro, che sotto Diocleziano sostenne il martirio. Atina vanta fin da' tempi degli Apostoli, Marco, da poi Fulgenzio ed Ilario. Siponto novera parimente i suoi. Bari, Otranto, Taranto, Reggio, Salerno, ed altre città di queste nostre province prima di Costantino, ebbero i loro Vescovi, de' quali lungo catalogo ne fu tessuto da Ferdinando Ughello in quella laboriosa opera dell'Italia Sacra.
Ma siccome non può mettersi in disputa, che la religione cristiana fosse stata introdotta in molte città di queste nostre province ne' primi secoli, e che vi fosse in ciascuna di esse molto numero di Fedeli riconoscenti i Vescovi per loro moderatori; così non potrà dubitarsi, che l'esercizio di questa religione si fosse da essi usato con molta cautela, e di soppiatto e ne' nascondigli più riposti delle lor case, e sovente nelle grotte più sconosciute e lontane dal commercio delle genti. Con minor libertà certamente poterono i nostri primi Vescovi in queste province cotanto a Roma vicine, mantener tra' Fedeli questa religione, di quel che far potevan coloro delle province orientali, come da Roma più lontane. Erano gl'Imperadori romani tutt'intesi a spegnere affatto questa nuova religione. Il solo nome di Cristiano gli faceva esosi ed abbominevoli, e per rendergli più esecrandi, gli accagionavan di molti delitti e scelleraggini: ch'essi fossero omicidi, aggiugnendo che ammazzassero gl'infanti, e si cibassero delle loro carni: che fossero incestuosi, e che nelle loro notturne assemblee mischiati, con esecrande libidini si contaminassero. Ed a coloro che per la manifesta lor probità non potevan imputar queste scelleratezze, rendevano detestabili presso agli Imperadori, come disprezzatori del culto degl'Iddii; che defraudassero gl'Imperadori del lor onore, mettessero sottosopra le leggi romane ed i loro costumi e tutta la natura, non volendo invocar gl'Idii, nè degnando di render loro i sacrifizj, laonde venivan chiamati Atei, Sacrileghi, Perturbatori dello Stato e dei costumi, e pestilenza eterna del genere umano e della natura; poichè col disprezzo, dicevan essi, che i Cristiani facevan de' loro Dii, ne stimolavan l'ira alla vendetta, onde eran cagione di molti mali negli uomini e nelle Nazioni; tanto che presso de' Gentili passò per comune e perpetua querela, che i Cristiani fossero cagione di tutti i loro mali: la qual perversa opinione durò in Roma fin a' tempi di Alarico, quando prese quella città, attribuendo questa lor disgrazia all'ira degl'Iddii, i quali per lo disprezzo, che di lor si faceva e della loro religione, vendicavansi in cotal guisa de' Romani: ciò che mosse S. Agostino contra questa vana credenza a scrivere i libri della città di Dio, e di far sì, che Orosio scrivesse la sua Orchestra, ovvero i suoi libri dell'Istoria contra i Pagani.
Per queste cagioni gli Imperadori cominciarono a perseguitargli: e terribile sopra ogni altra fu la persecuzione di Nerone, che con severi editti gli condannò, come pubblici inimici dello Stato e del genere umano, a pena di morte. Domiziano seguitò le sue orme. Trajano non fu contro d'essi cotanto crudele, poichè, rescrivendo a Plinio, Proconsole allora in Ponto ed in Bitinia, che lo richiedeva, come dovesse punirgli, atterrito dal numero grande, che alla giornata vedeva crescere in quelle province, gli ordinò che accusati e convinti, contro di loro severamente procedesse, ma non accusati, non dovesse farne altra inquisizione, usando più tosto connivenza. Nel che, come nota Vossio, fu maggiore la clemenza di Trajano gentile contra i Cristiani, che degli stessi nostri Cristiani, non pur contra i Maomettani, ma contra i Cristiani medesimi imputati d'eresia, contro a' quali l'Inquisizione, Tribunale nuovamente introdotto, procede con molto rigore, per inquisizione e senz'accusa: del quale Tribunale altrove ci tornerà occasione di lungamente ragionare. Crudelissimi nemici del nome cristiano ancora furon Adriano e gli Antonini: Severo, Massimino, Decio, Valeriano, Diocleziano, Massimiano, Galerio e finalmente Massenzio; e se cotali persecuzioni furono nell'altre province dell'Imperio feroci, assai più terribili si patirono senza dubbio nella nostra Campagna, e nell'altre province, delle quali ora si compone questo Reame, come più a Roma vicine. Gli Ufficiali, da' quali venivan governate, per aderire al genio de' Principi, e per farsi conoscere zelanti del lor servigio, essendo più da presso osservati, eseguivan con rigore e prontezza i loro editti: quindi è che dalla Campagna e da queste nostre province a ragione si vantino tanti Martiri, e che quasi tutti que' primi Vescovi delle loro città s'adorino oggi per Santi, siccome quelli, che in mezzo a sì fiere tempeste costantemente confessarono la fede di Cristo, ed intrepidi non curarono nè stragi, nè morti. Sono ancor oggi a noi rimasi i vestigi del Cimiterio Nolano: le memorie de' martirj praticati in Pozzuoli ne' tempi di Diocleziano: e tanti altri Cimiterj de' Martiri nell'altre province, che da poi, data la pace di Costantino alla Chiesa, furon da' Fedeli scoverti e manifestati; onde è che concorrendo alle tombe de' Martiri per devozione i Popoli delle città convicine, si fossero in appresso que' luoghi frequentati e renduti pieni d'abitatori, e costruttevi nuove terre e castelli: e quindi è nato, che prendessero il nome di quel Santo, e che oggi nel nostro Reame, le nuove terre non altronde s'appellino, che da qualche Santo lor tutelare.
In questi tempi cotanto turbati, niuna esterior politia ecclesiastica poteva certamente ravvisarsi in queste nostre province: i Fedeli per lo più nascosi e fuggitivi, e con tante turbolenze, se non di soppiatto potevan attendere a gli esercizj della lor novella religione. I Vescovi badavano con molto lor pericolo alle sole conversioni, e praticando in città tutte gentili, secondo che la necessità gli astringeva, scorrevan or in una, or in altra città; tanto era lontano, che potessero pensare al governo politico delle lor Chiese.
Per queste cagioni niuna mutazione o cambiamento potè recarsi nella politia dell'Imperio, e tanto meno in queste nostre province a tali tempi, per la nuova religione cristiana. Le città eran tutte gentili, gentile era la religione, che pubblicamente si professava, i Magistrati, le leggi, i costumi, i riti tutti. I Cristiani erano riputati come pubblici inimici, perturbatori dello Stato, e come tali fuori della Repubblica: le loro adunanze severamente proibite, non potevan aver Collegi separati, non potevan le lor Chiese posseder cos'alcuna. Tutte le città di queste nostre province, ancorchè nelle medesime molti Cristiani vivessero di nascosto, e tuttavia il numero de' Fedeli crescesse, eran gentili, ed il Gentilesmo era pubblicamente professato. Ciascuna città governandosi ad esempio di Roma, e molte da' Magistrati romani, si studiava anche nella religione imitare il suo Capo: e ciò non pur facevano i Municipj, le Colonie, e le Prefetture: ma anche le Città Federate, che maggior libertà avevano.
§. III. NAPOLI, siccome tutte l'altre città di questo Regno erano universalmente Gentili.
Napoli non già, come altri crede, divenne tutta intera cristiana fin dal primo dì della predicazione, che dicesi esservi stata fatta da San Pietro. Ben è probabile, che alcuni de' Napoletani abbracciasser incontanente la fede di Cristo, e con molta cautela, seguendo il lor Vescovo Aspreno, vivessero occulti in tal credenza; ma tutto il resto era idolatra, e questo culto veniva pubblicamente professato. Anzi che fra le città greche di queste nostre regioni, Napoli fu certamente la più superstiziosa e la più attaccata a gli errori degli Etnici, ed all'antica sua religione. Aveva pubblici templi, e varie Deità: ad Eumelo suo patrio Dio: ad Ebone, che per l'aggiunto se gli dava di chiarissimo, ovvero risplendentissimo Dio, si crede lo stesso che Apollo, ed era ancor detto Dio Mitra: a Castore e Polluce: a Diana: a Cerere, ed a tant'altri Numi. Ebbe altresì le Fratrie (come s'è già notato) dedicate non solamente a' suoi patrj Dii, ma anche agli Eroi, dove ne' privati tempj in quelle costrutti, sacrificavasi dalle famiglie, che quivi si raunavano. Infiniti eran ancora i giuochi, che per celebrare con maggior pompa e solennità le lor feste in questa città si facevano, e rinomati tanto, che tiravan dalle più remote parti gli spettatori: famosissimi fra i quali eran i giuochi Lampadici, celebrati con tanto studio e maestria, che invogliavano gli stessi Cesari ad esserne spettatori; nè inferiori ammiravansi i festeggiamenti al tempio di Cerere presso alla marina, onde perciò questa Dea vien da Stazio nomata Actia Ceres .
Vanamente credono alcuni, che in Napoli cessassero queste festività, e questi tempj, tantosto che fuvvi da S. Pietro predicato il Vangelo. Imperocchè è manifesto, che vi si mantenner quelli per molto spazio dappoi: Stazio, che scrisse sotto Domiziano, nelle sue Selve ed altrove fa di queste feste e di questi giuochi frequente menzione. Più scioccamente ancora si sono altri persuasi, che nel Ginnasio, il qual era in Napoli dedicato ad Ercole, vi si facessero esercizj di lettere, e che fosse stat'onorato da Ulisse, come ascoltatore; quasi che in mezzo a que' tanti suoi lunghi e faticosi errori, se gli fosse svegliato l'appetito di metters'in Napoli ad apprender lettere. Era il Ginnasio instituito per esercitarvi il corpo nel corso, nel cesto, nelle lutte, e negli altri giuochi Ginnici ed Atletici: e tanto celebre ed illustre era questo Ginnasio per lo rado e stremo valore degli Atleti, che non solamente tirava a se peregrini di remotissimi paesi ma (ch'è più notabile) fino gli stessi Imperadori, i quali portavansi spesso in questa città, e godevan d'esserne spettatori insieme e spettacolo. Fu tal Ginnasio favorito da Augusto, da Tiberio, da Caligola, da Claudio, ed assai più da Nerone. Tito ne fu sommamente vago ed, abbattuto dal tremuoto, il rifece: l'onoraron ancora Domiziano, Trajano, Adriano, M. Aurelio il filosofo, Comodo, Settimio, ed Alessandro Severo, e quasi tutti gl'Imperadori, che a Costantino precederono. Venendo dunque Napoli, a cagion di tali spettacoli, cotanto da questi Imperadori frequentata, la più parte de' quali essendo stati nemici fieri ed acerbi, e crudelissimi persecutori della cristiana religione; qual mai potrà persuadersi, che questa città, dopo il passaggio di S. Pietro per Roma, avesse il Gentilesimo deposto e pubblicamente abbracciata la religione cristiana e professata? Non i costumi de' Napoletani tenacissimi del culto dei loro patrj Dii, non le frequenti dimore de' romani Imperadori in questa città, non il costoro mortal odio contro de' Cristiani il possono certamente persuadere; ma ben più tosto chiaramente convincon il contrario, e ne dimostrano quanto grave errore sia stato il credere, che in Napoli non vi furon martirj, quando è indubitato, siccome nemmen potè negarlo lo stesso P. Caracciolo, che ve n'ebbero, e molti e spessi; ed il Cardinal Baronio, favellando de' SS. Fausto e Giulita, rapporta in Napoli essere stati martoriati. Conciossiachè la città, quantunque creder si volesse, che come federata non fosse stata sottoposta a' romani editti, era ella nondimeno per se stessa idolatra, onde acerbissima nemica de' Cristiani, e tali parimente eran coloro, che ne ministravan il governo. Anzi per la gran superstizione de' Napoletani, e per la somma loro venerazione verso i patrj Numi, eziandio dappoichè Costantino M. diede la pace alla Chiesa, si penò gran tempo innanzi che il falso culto potesse interamente abolirvisi, siccome in altre città dell'Imperio altresì, ed in Roma stessa fino a' tempi degl'Imperadori Arcadio, ed Onorio, Principi religiosissimi e risoluti di sterminare nell'Imperio l'Idolatria, non vi si potè affatto estinguere. Ed è tutta mal tessuta favola ciò, che narrasi delle tante chiese ed altari in Napoli eretti da Costantino M. come chiaro vedrassi ne' seguenti libri di quest'Istoria: onde a ragione reputò il Giordano, seguitato dal Tutini, che il tempio dedicato in Napoli da Tiberio Giulio Tarso a Castore e Polluce, fosse stato poscia da' Napoletani consecrato al vero Nume in onor di S. Paolo Apostolo, non già nel tempo di Costantino M. ma di Teodosio Imperadore. Simmaco, il qual ebbe vita nel quarto secolo, ci fa vedere ch'ella si mantenne gentile per molt'anni, dappoichè da Costantino fu abbracciata la religione Cristiana; laonde per questa costanza di non aver seguitato l'esemplo dell'altre città, ma d'aver ritenuta l'antica religione, vien da lui lodata e fregiata del titolo di città religiosa. Ecco le sue parole: Quamprimum Neapolim petitu Civium suorum visere studeo: illic honori Urbis religiosae intervallum bidui deputabo. Dehinc, si bene Dii juverint, Capuano itinere; venerabilem nobis Romam, laremque petemus. Ciascun sa, che Simmaco fu fiero ed atroce nemico de' Cristiani, onde chiamando Napoli città religiosa non poteva a patto veruno intendere della cristiana religione; ma solamente perchè ruinando da ogni lato il Gentilesimo, reputò egli Napoli cospicua e religiosa per quella falsa religione, che da lei costantemente si riteneva e professava.
Camillo Pellegrini lasciò a' Letterati napoletani la cura di sciogliere il nodo, che questo passo di Simmaco gli metteva per le mani, poichè veramente è incompatibile colla comun credenza de' Napoletani, che questa città fosse divenuta cristiana fin dalla prima predicazione di S. Pietro. Ma questo difficil passo, ben fu assai prima scoverto dal nostro accuratissimo Chioccarelli, (cui a ragione P. Lasena suo amicissimo solea chiamare, per le sue diligenti investigazioni, can bracco) e s'impegnò di superarlo, con dare diverso senso a quella parola Religiosae; cioè che volesse intender Simmaco, non già della religione pagana, ma della cristiana. Interpretazione, la quale in vero pur troppo s'allontana dalla condizione di que' tempi, e dalla religione di quell'Autore, alla quale fu egli tanto tenacemente attaccato, quanto alla cristiana implacabilmente nemico. Un Frate Carmelitano Scalzo a' nostri tempi ha voluto ancor egli prendersi questa briga, ma non eran da ciò le sue penne, onde assai più infelicemente ne venne a capo. Se però la verità dee esserne più amica d'ogni altra cosa, e se liberi dalla passione d'un affettato ed ozioso amore verso la Patria vorremo con diritto occhio guardarvi, agevolissima per nostro avviso la soluzione del nodo si troverà, anzi niun nodo esservi certamente scorgeremo, quando si voglia por mente allo stato d'allora di queste città cotanto a Roma vicine, della quale si pregiavan come di lor Capo imitare ogni andamento, ed a queste nostre province d'Occidente, dove non si finì d'abbatter l'Idolatria fin'a' tempi d'Arcadio e d'Onorio.
Nell'altre province, e più in quelle d'Oriente poteva un poco meglio ravvisarsi la politia ecclesiastica, e professarsi con più libertà la cristiana religione, come quelle, dove le persecuzioni non furon cotanto rabbiose e feroci; ma non per tutto ciò recossi alterazione alcuna allo Stato civile, o altro cambiamento: imperocchè come perseguitata e sbandita dall'Imperio, non poteva pubblicamente ritenersi, e molto meno professarsi.
§. IV. Gerarchia ecclesiastica, e Sinodi.
Non conobbe la Chiesa in questi tre primi secoli altra gerarchia, nè altri gradi, se non di Vescovi, Preti e Diaconi. I Vescovi ch'avevan la soprantendenza, e a' quali tutti gli ordini della Chiesa ubbidivano, col loro sommo zelo e carità, se per avventura divisione alcuna scorgevan tra' Fedeli, tosto la componevano, e sedavano gli animi perturbati. La carità era uguale, così negli uni, che negli altri, ne' primi di servirsi con moderazione della loro preminenza, ne' secondi d'ubbidir loro con intera rassegnazione. Se occorreva deliberarsi affare alcuno di momento intorno alla religione, acciocchè si mantenesse fra tutte le Chiese una stabile concordia e legame, e non fosse discordante dall'altra: solevan i Vescovi infra di loro comunicar ciò che accadeva, e per mezzo di messi o di lettere, che chiamavan formate, mantenevan il commercio, e così tutti uniti con istretto nodo, rappresentanti la Chiesa universale, si munivano contra le divisioni e scismi, che mai avessero potuto insorgere.
Quando lor veniva fatto, e le persecuzioni davan qualche tregua, sicchè avesser potuto da varie città unirsi insieme in una, raunavansi essi ne' Sinodi, per far delle decisioni sopra la vera fede, per regolar la politia e' costumi de' Cristiani, ovvero per punire i colpevoli, e deliberavano ciò che altro occorreva: seguitando in ciò l'orme degli Apostoli, e di S. Pietro lor Capo, il quale in Gerusalemme ragunati i Fedeli, tenne Concilio, che fu il primo, detto perciò Gerosolimitano, e che negli atti degli Apostoli fu da S. Luca inserito.
Nel secondo secolo, quando erasi più dissemimata la religione, così nelle province d'Oriente, come d'Occidente si tennero altri Sinodi. I primi furono nell'Asia, nella Siria e nella Palestina. In Occidente ancora cominciaron in questo secolo, essendosene in Roma e nella Gallia tenuti contra l'eresie di Montano, de' Catafrigi, e per la controversia Pascale.
Nel terzo secolo si fecero più spessi in Roma contro Novato e suoi seguaci, ma più nell'Asia e nell'Affrica.
§. V. De' regolamenti ecclesiastici.
Non ebbe la Chiesa ne' primi tempi altri regolamenti, se non quelli, ch'erano della Scrittura Santa, nè altri libri erano conosciuti: da poi per l'occasione de' Concilj tenutisi, furon alcuni altri regolamenti in quelli stabiliti, onde erano le Chiese di quelle province governate.
Questi non eran, che regolamenti appartenenti alla disciplina della Chiesa, non essendo stato giammai negato al Sacerdozio il conoscimento delle differenze della religione, ed il far regolamenti appartenenti alla lor disciplina. Anche a' Sacerdoti del Paganesimo era ciò lecito di fare: ed era diritto comune, così di Romani, come di Greci, che ogni Comunità legittima conoscesse de' suoi proprj negozj, e vi facesse de' regolamenti. Cajo nostro Giureconsulto, favellando di simili Comunità e Collegi, dice: His autem potestatem facit lex, pactionem quam velint sibi ferre, dum ne quid ex publica legge corrumpant; e rapporta una legge di Solone, nella quale lo stesso era stabilito fra Greci. Giovanni Doujat, e Dupino gran Teologo di Parigi, insegnarono, che la Chiesa non solamente abbia tal autorità per diritto comune, per cui ciascuna società dee aver qualche forma di governo, per mantenersi senza confusione e disordini, e per potervi stabilire de' regolamenti, ma che fu anche da Cristo conceduta agli Apostoli questa potestà di far de' canoni appartenenti alla disciplina della Chiesa; essendo indubitato, che N. S. diede autorità a' suoi Apostoli e loro successori di governare i Fedeli in tutto ciò che riguarda la religione, così circa il rischiaramento de' punti della fede, come intorno alla regola de' costumi. E questi furono i primi fondamenti ed i principj, onde trasse origine la ragion canonica, la quale da poi, col lungo correr degli anni, emula della ragion civile, maneggiata da' romani Pontefici, ardì non pur pareggiare, ma interamente sottomettersi le leggi civili, tanto che dentro un Imperio medesimo, contra tutte le leggi del governo, due corpi di leggi diverse si videro, intraprendendo l'una sopra l'altra. Origine che fu ne' seguenti secoli delle tante contese giurisdizionali, e de' tanti cangiamenti dello Stato politico e temporale dell'Imperio, e di queste nostre province, come nel corso di quest'Istoria partitamente si conoscerà.
In questi primi secoli però niuna alterazione recaron alla politia dell'Imperio tali regolamenti: essi eran solamente ristretti per le differenze della religione, ed a ciò che concerneva il governo delle Chiese, e la lor disciplina: nè delle cose civili e dell'Imperio s'impacciavano, lasciando tutto intero a' Principi il governo della Repubblica, come prima.
§. VI. Della conoscenza nelle cause.
Ebbe ancora la Chiesa in questi tempi, come cosa attenente alla sua disciplina, la censura, e correzion de' costumi fra Cristiani. Se qualche Fedele deviando dal diritto cammino, inciampava in qualche eresia, ovvero per qualche pubblico e notorio peccato, scandalizzava gli altri, era prima secretamente ripreso, perchè si ravvedesse: se non s'emendava, denunciavasi alla Chiesa, cioè al Vescovo e Presbiterio co' Fedeli, dalla quale era la seconda volta ripreso, e se per fine ciò non ostante s'ostinava nell'errore e nella libertà del vivere, era scacciato dalla loro Comunione, ed avuto come tutti gli altri Gentili e Pubblicani, privandolo di tutto ciò, che dava la Chiesa a' suoi Fedeli, e 'l lasciavan nella società civile con gli altri Gentili; nè, se non dopo un vero pentimento ed una rigorosa penitenza, veniva di nuovo ammesso nella loro Comunione.
Questa correzion di costumi, durante lo stato popolare di Roma, risedeva presso a' Censori, chiamati perciò Magistri morum, i quali avevan potere di notar d'ignominia ogni sorta di persone, per li casi, di cui la giustizia non avea costume d'inquirere, come saggiamente e ben a lungo tratta Bodino. Instituto certamente assai commendevole, il qual essendo mancato sotto gl'Imperadori, fu rilevato da' primi Cristiani, che per mezzo di questa censura mantenevansi in una singolar purità di costumi, come testimonia Plinio de' Cristiani de' suoi tempi: ed è quello, che dice Tertulliano nel suo Apologetico, parlando dell'Assemblee della Chiesa: Ibidem, dic'egli, Exhortationes, castigationes, et Censura Divina: ond'è, ch'essi chiamaron il Capo di ciascuna Chiesa Episcopon, come che significasse Inspettor de' costumi della sua Chiesa: per la qual cosa, le scomuniche ed altre pene della Chiesa sono chiamate ancor oggi censure ecclesiastiche: materia, che richiederebbe più lungo discorso, ma quello di Bodino può supplire.
Erasi ancora in questi tempi introdotto costume fra' Cristiani di sottomettere le loro differenze al giudicio della Chiesa, a fine di non piatire avanti a' Giudici pagani, secondo il precetto di S. Paolo nella prima a' Corinti. Talmente che si vede in Tertulliano, in Clemente Alessandrino, ed in altri Autori di questi tempi, che coloro, i quali non volendovisi sottomettere, facevan litigare i Cristiani dinanzi a' Magistrati gentili, erano riputati presso che infedeli, o almeno cattivi Cristiani: ma questi giudicj, che davansi da' Vescovi, non eran che pareri arbitrali, nè obbligavan i litiganti che per onore; come allorchè persone ragguardevoli intromettonsi alla composizione di qualche differenza: del rimanente nè eran costretti a sottomettervisi, nè proferito il parere potevan essere astretti ad eseguirlo, lasciando loro la libertà di ricorrere a' Magistrati secolari.
Sopra queste tre sole occorrenze prese la Chiesa a conoscere nel suo cominciamento; ciò sono, sopra gli affari della fede e della religione, di cui ella giudicava per forma di politia: sopra gli scandali e minori delitti, di cui ella conosceva per via di censura e di correzione: e sopra le differenze fra' Cristiani, che a lei riportavansi, le quali decideva per forma d'arbitrio e di caritatevole composizione. Donde si vede, che gli Ecclesiastici non avevan quella cognizione perfetta, che nel diritto chiamasi giurisdizione: ma la loro giustizia era chiamata notio, judicium, audientia, non giammai jurisdictio.
§. VII. Elezione de' Ministri.
Era ancor cosa appartenente alla disciplina della Chiesa di fornirla de' suoi Ministri: e Dupino scrisse, essere stata da Cristo conceduta anche questa potestà a gli Apostoli di sostituire nelle Chiese i loro successori, cioè i Vescovi, i Preti ed altri Ministri. Ed in vero gli Apostoli, come si raccoglie dall'Istorie Sacre, in molti luoghi ordinaron i Vescovi e gli lasciaron al governo delle Chiese, ch'essi aveano fondate: ma da poi mancati gli Apostoli, quando per la morte d'alcun Vescovo rimaneva la Chiesa vacante, si procedeva all'elezione del successore; ed allora si chiamavan i Vescovi più vicini della medesima provincia, almeno al numero di due, o di tre; ch'era difficile in questi tempi il tener Concilj numerosi, se non negl'intervalli delle persecuzioni: ed alle volte le sedi delle Chiese restavano gran tempo vacanti; e quelli unendosi insieme col Presbiterio e col Popolo fedele della città, procedevan all'elezione. Il Popolo proponeva le persone che desiderava s'eleggessero, e rendeva testimonianza della vita e costume di ciascuno, finalmente unito col Clero, e i Vescovi presenti, acconsentiva all'elezione, onde tosto il nuovo eletto era da' Vescovi consecrato. Alcune volte il Clero ed il Popolo avean nell'elezioni maggiore o minor parte, poichè in alcune esponeva solamente i suoi desiderj, e rendeva le testimonianze della vita e costumi: in altre s'avanzava ad eleggere, come accadde nell'elezione di S. Fabiano Vescovo di Roma, che al riferir d'Eusebio fu eletto a viva voce di Popolo, il quale aveagli veduta sul capo fermarsi una colomba: il che quando accadeva, ed i Vescovi lo stimavan conveniente, era da essi l'elezione approvata, ed ordinato l'eletto: e nell'istesso tempo si faceva l'elezione e la consecrazione, ed i medesimi Vescovi erano gli elettori e gli ordinatori. Nè vi si ricercava altro; imperciocchè in questi tre primi secoli non era stata ancor dichiarata da' canoni la ragion de' Metropolitani sopra l'ordinazioni de' Vescovi della loro provincia, come fu fatto da poi nel quarto secolo; di che tratteremo nel libro seguente, quando dell'esterior politia ecclesiastica del quarto e quinto secolo ci tornerà occasione di favellare.
Questa in brieve fu la disciplina ecclesiastica intorno all'elezioni de' Vescovi di questi tre primi secoli, secondo si ravvisa dall'Epistole di S. Clemente Papa, e di S. Cipriano Scrittore del terzo secolo. L'elezione de' Preti e de' Diaconi s'apparteneva al Vescovo, al qual unicamente toccava l'ordinazione, ancorchè nell'elezione il Clero ed il Popolo v'avessero la lor parte.
§. VIII. Beni temporali.
Non furon nella Chiesa in questi primi tempi tante facoltà e beni, sicchè dovesse molto badare all'amministrazione e distribuzione de' medesimi, e stabilire anche sopra ciò suoi regolamenti. Ne' suoi principj non ebbe stabili, nè peranche decime certe e necessarie: i beni comuni delle Chiese non consistevano quasi che in mobili, in provigioni da bocca, ed in vestimenti, ed in danajo contante, che offerivano i Fedeli in tutte le settimane, in tutti i mesi, o quando volevano, atteso che non vi era cos'alcuna di regolato, nè di forzato in quelle offerte. Quanto agl'immobili, le persecuzioni non permettevano di acquistarne, o vero di lungo tempo conservargli. I Fedeli volontariamente davan oblazioni e primizie, per le quali fu destinata persona, che le conservasse, e ne' tempi di Cristo Salvator nostro ne fu Giuda il conservatore; ma non v'era altro uso delle medesime, se non che di servirsene per loro bisogni d'abiti e per vivere, e tutto il di più che sopravanzava, distribuivasi a' poveri della città.
Quest'istesso costume, dopo la morte del nostro Redentore, serbarono gli Apostoli, i quali tutto ciò che raccoglievan da' Fedeli, che per seguirgli si vendevan le case ed i poderi, offerendone ad essi il prezzo, riponevan in comune: e non ad altr'uso, come s'è detto del denaro si servivano, se non per somministrare il bisognevole a loro medesimi, ed a coloro che destinavano per la predicazione del Vangelo, e per sostenere i poveri e bisognosi de' luoghi dove scorrevano. E crescendo tuttavia il numero de' Fedeli, crescevano per conseguenza l'oblazioni, e quando essi le vedevano così soprabbondanti, che non solamente bastavan a' bisogni della Chiesa d'una città, ma sopravanzavano ancora: solevan anche distribuirle nell'altre Chiese delle medesime province, e sovente mandarle in province più remote, secondo l'indigenza di quelle ricercava: così osserviamo nella scrittura, che S. Paolo, dopo aver fatte molte raccolte in Macedonia, in Acaja, Galazia e Corinto, soleva mandarne gran parte alle Chiese di Gerusalemme. E dopo la morte degli Apostoli, il medesimo costume fu osservato da' Vescovi loro sucessori. Da poi fu riputato più utile ed espediente, che i Fedeli non vendessero le loro possessioni, con darne il prezzo alle Chiese: ma che dovessero ritenersi dalle Chiese stesse, acciocchè da' frutti di quelle e dall'altre oblazioni si potesse sovvenire a' poveri ed a' bisogni delle medesime: ed avvenga che l'amministrazione appartenesse a' soli Vescovi, nulla di manco costoro intenti ad opere più alte, alla predicazione del Vangelo e conversion de' Gentili, lasciavan il pensiero di dispensar li danai a' Diaconi: ma non per ciò fu mutato il modo di distribuirgli; poichè una porzione si dispensava a' Sacerdoti e ad altri Ministri della Chiesa, i quali per lo più vivean tutti insieme ed in comunità, e l'altra parte si consumava per gli poveri del luogo.
In decorso di tempo nel Pontificato di Papa Simplicio intorno all'anno 467, essendosi scoverta qualche frode de' Ministri nella distribuzione di queste rendite, fu introdotto, che di tutto ciò, che si raccoglieva dalle rendite e dall'oblazioni, se ne facessero quattro parti, l'una delle quali si serbasse per li poveri, l'altra servisse per li Sacerdoti ed altri Ministri della Chiesa, la terza si serbasse al Vescovo per lui e per li peregrini che soleva ospiziare, e la quarta, cominciandosi già ne' tempi di Costantino M. a costruire pubblici templi, e farsi delle fabbriche più sontuose, e ad accrescersi il numero degli ornamenti e vasi sacri, si spendesse per la restaurazione e bisogni dei medesimi. Nè questa distribuzione fu in tutto uguale; poichè se li poveri erano numerosi in qualche città, la lor porzione era maggiore dell'altre; e se i Tempj non avean bisogno di molta reparazione, era la lor parte minore.
Ecco in breve qual fosse la politia ecclesiastica in questi tre primi secoli della Chiesa, che in se sola ristretta, niente alterò la politia dell'Imperio, e molto meno lo stato di queste nostre province, nelle quali per le feroci persecuzioni a pena era ravvisata: in diverso sembiante la riguarderemo ne' secoli seguenti, da poi che Costantino le diede pace: ma assai mostruosa e con più strane forme sarà mirata nell'età men a noi lontane, quando non bastandole d'aver in tante guise trasformato lo stato civile e temporale de' Principi, tentò anche di sottoporre interamente l'Imperio al Sacerdozio.
FINE DEL LIBRO PRIMO
STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI