CAPITOLO IV.

Prima invasione de' Vestrogoti a' tempi d'Onorio.

Non sentirono queste province nel Regno di Costantino, nè degli altri suoi sucessori, infin ad Onorio, que' mali e quelle calamità ch'avevan già cominciato a portare i Goti nell'altre province dell'Imperio. Questi Popoli, usciti dalla Scandinavia ne' tempi di Costantino M. e prima ancora, vissero in comune fortuna, quantunque sotto un sol Capo militassero, fino a Ermanarico, che si fece loro Re, ma morto costui, fra di loro si divisero, e ne' tempi di Valente Imperadore, quelli, che chiamavansi Vestrogoti s'elessero per lor Capitano Fridigerno, e poi per loro Re Atanarico. Teodosio il Grande, amator della pace, seppe sì ben contenergli ne' loro limiti, che con essi non pur ebbe continua pace, ma gli ridusse in tale stato, che morto Atanarico loro Re, senza prendersi essi cura di eleggerne un altro, tutti si sottoposero al romano Imperio, e fecero della milizia un sol corpo, militando sotto l'insegne di Teodosio, che gli ebbe per suoi confederati ed ausiliarj. Ma estinto questo Principe nell'anno 395 e succeduto all'Imperio d'Oriente Arcadio suo figliuol maggiore, e reggendosi l'Occidente dall'altro suo figliuolo Onorio, cominciaron questi Principi, lussuriosamente vivendo, a turbar la Repubblica, ed a togliere a' Vestrogoti lor ausiliarj que' doni e quelli stipendj, che Teodosio lor padre, per contenergli sotto l'Imperio romano e sotto le sue insegne, largamente avea loro assegnati. Del che malcontenti i Vestrogoti, e dubitando, che per sì lunga pace potesse nell'ozio snervarsi il lor valore e fortezza, deliberarono far di presente, ciò che avean trascurato ne' tempi di Teodosio, creandosi un Re, che fu Alarico, uomo che per la sua bizzaria aveasi appo i suoi acquistato soprannome d'audace; e come quegli, che traeva sua origine dall'illustre stirpe de' Balti, lo riputaron abilissimo a poter con decoro e magnificenza sostenere la regal dignità. Questi considerando, che di sua maggior gloria e della sua nazione sarebbe stato acquistar con proprj sudori i Regni, che viver oziosi e lenti in quelli degli altri, persuase a' suoi di cercar nuovi paesi per conquistargli; onde raccolto, come potè il meglio, un competente esercito, avendo superata la Pannonia, il Norico e la Rezia, entrò in Italia, che trovatala vota di truppe ed in lungo ozio, con molta celerità cominciò ad invaderla, e presso a Ravenna fermossi, sede allora dell'Imperio d'Occidente.

Avea già Onorio, lasciato Milano, in quest'anno 402 trasferita la sua residenza in Ravenna, da lui destinata sede dell'Imperio, acciocchè potesse con più facilità opporsi all'irruzione, che per questa parte solevan tentare le straniere Nazioni. Ma gli venne cotanto improviso ed inaspettato quest'insulto degli Vestrogoti, che trovandosi sorpreso, nè potendo con quella celerità, che sarebbe stata necessaria, ragunar eserciti per reprimergli, fu obbligato a prestar subitamente orecchio a' trattati di pace da Alarico offertigli, il quale se bene proccurasse co' suoi fermarsi in Italia, nulladimeno fu accordato, che dovessero i Goti abbandonarla, dandosi loro in iscambio l'Aquitania e le Spagne, province quasi che perdute da Onorio; poichè da Gizerico Re de' Vandali erano state in gran parte occupate. Consentirono i Goti, e lasciata l'Italia, alla conquista di quelle regioni erano tutti i loro animi rivolti; nè per questo lor primo passaggio patì l'Italia cos'alcuna di male. Ma furon irritati da poi per gl'ingannevoli tratti di Stilicone, il quale presso a Polenzia, città della Liguria, mentr'essi a tutto altro pensavano, gli attaccò improvisamente; e quantunque dissipati e vinti, nulladimeno ripreso da poi tantosto animo e raccolti insieme, dall'inganno e dall'ingiuria stimolati, furiosamente si rivolsero, e lasciando la destinata impresa, posero in fuga Stilicone col suo esercito, e nella Liguria ritornati, proseguirono a devastar con quello l'Emilia, la Flaminia, la Toscana, e tutto ciò che altro lor veniva tra' piedi, fin a Roma trascorrendo, ove tutto il circostante paese similmente depredarono e saccheggiarono: alla fine entrati in Roma, la spogliarono solamente, non permettendo Alarico che s'incendiasse, nè ch'alcuna ingiuria a' tempj si facesse.

Non pur Roma più volte, e le province sopraddette patirono questi travagli e questi mali, ma non molto da poi l'istesse calamità sostennero l'altre ancora, che oggi compongon il nostro regno. La Campagna, la Puglia e la Calabria, la Lucania ed i Bruzj, ed il Sannio soffersero lo stesso destino. Scorrevano i Goti portando in ogni parte flagelli, e ruine, nè si fermarono se non arrivati nell'ultima punta d'Italia, ove trattenuti dallo stretto Siciliano, ne' Bruzj posero la lor sede: e quivi mentre a nuove imprese della Sicilia, e dell'Affrica si dispone Alarico, essendosi in quello stretto naufragate le navi, che per ciò aveva disposte, dall'avversità di sì funesto accidente toccato amaramente nell'animo, finì suoi giorni con morte immatura presso a Cosenza, e non mai abbastanza pianto da' suoi, fu nel fondo del fiume Busento con molte ricchezze depredate in Roma seppellito.

La morte d'Alarico fu cagione, che le cose d'Italia, e di queste nostre province, ripigliando sotto l'imperio dello stesso Onorio qualche tranquillità, assai pacifiche ritornassero: poichè se bene Ataulfo , che ad Alarico suo parente succedè, ritornato in Roma, avesse a guisa delle locuste raso ciò che in quella città dopo le tante prede e saccheggiamenti era restato ed avesse da capo miseramente spogliata l'Italia, ed Onorio esausto di forze non potesse contrastargli; nientedimeno, essendosi da poi Ataulfo congiunto in matrimonio con Galla Placidia sorella d'Onorio, potè tanto l'amor, che portava a questa Principessa, ed il vincolo del nuovo parentado appresso lui, che racchetatosi con Onorio, tutta libera lasciogli l'Italia, ed egli co' suoi nelle Gallie fece ritorno, contro a' Franchi ed a' Borgognoni, che quelle infestavano, portando le sue armi; donde si gittarono in quelle regioni i primi semi del loro Reame, imperocchè dopo la morte d'Ataulfo ed indi a poco di Rigerico, essendo succeduto Vallia, gli fu da Onorio stabilmente assegnata l'Aquitania con molt'altre città della provincia di Narbona, ove fermata la residenza in Tolosa, si dissero Re de' Vestrogoti, cioè de' Goti Occidentali, a differenza degli Ostrogoti, che le parti orientali, e l'Italia da poi signoreggiarono, come più innanzi diremo.

Onorio adunque, morto Alarico e purgata di Goti l'Italia, per la pace indi fatta con Ataulfo, volendo ristorar de' passati danni queste province, nell'anno 413 promulgò quella costituzione, ch'oggi ancor leggiamo nel C. di Teodosio. Erano la Campagna, la Toscana, il Piceno, il Sannio, la Puglia e la Calabria, la Lucania e' Bruzj, in istato pur troppo lagrimevole ridotte, e perciò risedendo egli in Ravenna, sede allora dell'Imperio d'Occidente, dirizzò a Giovanni Prefetto P. d'Italia quella legge, nella quale a tutte queste province concedè indulgenza di non potere i suoi provinciali esser astretti a pagare interamente i tributi, ma contentossi, che pagando solamente la quinta parte di ciò, ch'essi solevano, tutto il resto lor si rimettesse.

Nè minore ne' seguenti anni fu la cura, che prese Onorio di queste province; poichè risedendo, come si disse, in Ravenna, molte leggi per la buona amministrazione di esse promulgò. Sua parimente fu quella data in Ravenna; per cui passato il decennio si tolse a' testamenti ogni vigore, la qual oggi pur abbiamo nel Codice di Giustiniano. E nell'anno 418 nuovo indulto di tributi concedè alla Campagna, al Piceno, ed alla Toscana; e sinchè visse al riparo delle cose d'Italia fu tutto inteso e pronto.

Ma essendo egli in Ravenna, nell'anno 423 finì i giorni suoi; onde Teodosio il Giovane, che nell'Imperio d'Oriente era succeduto ad Arcadio suo padre, quantunque per breve tempo avesse e' solo governato l'Imperio, fece tantosto dichiarar Augusto, ed Imperador d'Occidente Valentiniano III. figliuolo di Costanzo, e di Placidia, la quale dopo la morte d'Ataulfo, restituita ad Onorio, a Costanzo fu sposata. Valentiniano portatosi in Ravenna, ed indi a poco in Roma, rassettò molte cose di quella città, e a dar riparo alla giurisprudenza, ne' suoi tempi già caduta dall'antico splendore, pose ogni cura; mentre nello stesso tempo Teodosio pensava in Oriente a ristabilirla nell'Accademia di Costantinopoli; ed alla fabbrica del nuovo Codice, che dal di lui nome fu detto Teodosiano, avea rivolti i suoi pensieri.

Questo fu dunque lo stato delle province ch'oggi forman il nostro Regno, da' tempi di Costantino fino a Valentiniano III., ne' quali tempi furon dominate da quelli Cesari, a' quali, secondo le varie divisioni dell'Imperio, l'Italia appartenne: questi sono Costantino M., Costante e Costanzo suoi figliuoli, Giuliano, Gioviniano, Valentiniano I., Valentiniano II., Onorio e Valentiniano III. Furono parimente sotto la disposizione e governo de' Prefetti d'Italia, e de' Vicarj di Roma. Ed ebbero in oltre altri più immediati Moderatori: un Consolare, due Correttori, ed un Preside, da' quali, risedendo nelle province a loro commesse, eran più da presso rette e governate.

Secondo le leggi romane, e le costituzioni di questi Principi venivan amministrate; nè il nome d'altre leggi s'udiva. Toltone alcune città, nelle quali essendo ancor rimaso qualche vestigio dell'antiche ragioni di Municipio e di Città Confederata, conforme a' loro particolari istituti si vivea; in ogni provincia non si riconobbero altre leggi, che quelle de' Romani, alle quali solevan quest'istesse città in mancanza delle loro municipali, aver ricorso, siccome a' fonti d'ogni umana e divina ragione. Nè quel primo turbamento, che sotto Alarico portarono i Vestrogoti a queste nostre province, recò verun oltraggio alla politia ed alle leggi de' Romani; poichè questo Principe in mezzo all'armi non potè pensare alle leggi; non fece, che scorrere queste regioni; e quantunque per qualche tempo si fosse fermato ne' Bruzj, nuove leggi da lui non furon introdotte. Nè tampoco dopo lui, dal suo successore Ataulfo, il quale pacificatosi finalmente con Onorio, tutta libera lasciò a costui l'Italia, la quale egli poscia, e Valentiniano III. resse ed amministrò, come avean fatto gli altr'Imperadori d'Occidente loro predecessori.

§. I. Non furono queste province ad altri cedute, o donate.

Nella considerazione delle quali cose se si fossero pur un poco fermati i Scrittori di questo Regno, e massimamente i nostri Giureconsulti, non sarebbon certamente incorsi in quelli così gravi e sconci errori de' quali han riempiuti i lor volumi: nè cotanto leggiermente sarebbonsi lasciati persuadere a creder quella favolosa donazione di tutt'Italia, che voglion supponere fatta da Costantino nell'anno 324 a Silvestro romano Pontefice, quattro giorni da poi, che fu da costui in Roma battezzato. Errore, che sparso negli Scrittori italiani, e più ne' libri de' nostri Professori, toltone un solo Bartolo, fu cagione d'infiniti altri abbagliamenti, anche in cose di più perniziose conseguenze: imperciocchè alcuni di essi si son avanzati fino a porre in istampa, che dopo questa donazione gli altr'Imperadori succeduti a Costantino non ebbero ragione, o diritto alcuno sopra queste nostre province, come quelle che s'appartenevano a' Pontefici romani ed erano del patrimonio di San Pietro: e quindi esser nata la ragione dell'investiture date poi da essi ad altri diversi Principi: aggiugnendo che fin da tali tempi il nostro Regno fosse stato distaccato dall'Imperio, e perciò non mai più sottoposto a gl'Imperatori d'Occidente, e molto meno a quelli d'Oriente. Il nostro Consigliere Matteo degli Afflitti arrivò a tal estremità, che non si sgomentò di dire, che dopo questa donazione, tutte l'altre costituzioni promulgate dagli altr'Imperadori succeduti a Costantino, per difetto di potestà, non ebbero in queste nostre province forza, nè vigor alcuno di legge scritta. I Reggenti stessi del nostro C. Collaterale non arrossiron eziandio di scrivere, che dopo questa donazione, i successori di Costantino non ebbero giurisdizione alcuna di far leggi sopra queste province, e che perciò dovea ricorrersi alla ragion canonica, e non alla civile. Merita pertanto che qui non si defraudi della meritata lode Marino Freccia nostro Giureconsulto; egli, fra' nostri fu il primo, che per avere avuto buon gusto dell'istoria, rimproverò a' nostri Scrittori error sì grave: nè 'l perdonò tampoco al Consigliero Afflitto, di cui professava esser congiunto per affinità: nè con altra difesa seppe di tal errore scusarlo, se non col dire, affinis meus historicus non est. Ma se questi Scrittori per l'ignoranza de' tempi, ne' quali vissero, meritan qualche scusa, e a loro non già, ma al vizio del secolo si volessero questi difetti imputare: non meritano però compatimento veruno i nostri moderni, i quali dopo tante riprove, dilettansi per impegno tener chiusi gli occhi, acciocchè non ricevan un poco di lume, che tanto basterebbe per isgombrare le lor tenebre, nelle quali si compiaccion di vivere. È oggi mai stato dimostrato abbastanza per tanti chiari e valent'uomini, che quel finto istromento di donazione fu opera, che non sorse prima dell'ottavo, o nono secolo, come che da poi siasi proccurato di farlo anche inserire ne' decreti di Graziano, quando negli antichi, secondo attestano S. Antonino, ed il Cardinal Cusano, non si leggeva: nè prima di quel tempo s'ebbe di lui notizia alcuna: ora disputasi solamente fra' Scrittori, qual abbia potuto essere l'Autore, che da prima diede corpo e moto a questa larva. Alcuni contendono, che fosse stata opera di qualche greco Scismatico, il quale, o per rifondere tutta la grandezza della Chiesa in Roma agl'Imperadori d'Oriente, ovvero per aver campo da declamare e burlarsi della Chiesa latina e de' romani Pontefici, secondo il costume della nazione a quelli avversissima, avesse proccurato, coll'iscovrimento poi di cotal falsa invenzione, di discreditargli e rendergli odiosi al Mondo; siccome imputavan ad essi parimente molt'altri fatti strani e portentosi, eccedenti la lor potestà. E conforme nel progresso di quest'Istoria vedremo, i Greci di Gregorio II. scrissero, ch'avesse scomunicato l'Imperador Lione, depostolo dall'Imperio, ordinato a' sudditi di non pagargli tributi, e perciò assolutigli dal giuramento, e mille altri eccessi narrati nelle loro storie, non per altro, che per rendergli esosi e per mostrargli al Mondo usurpatori dell'altrui ragioni; ancorchè poi i più impegnati per la Corte di Roma, di ciò che i Greci scrissero per un fine, se ne valessero per un altro. Altri, fra i quali è Pietro di Marca, scrissero, che quell'istrumento fosse stato finto e supposto non già da alcun Greco, o Scismatico, ma da Latino e Fedele: tutti però concordano esser favoloso; e tanto più se ne persuasero, quanto che molti esemplari veggonsene tutti infra loro varj e difformi. D'una maniera si legge questa donazione nel decreto di Graziano: di un'altra è quella trasferita dal greco in latino, rapportata da Teodoro Balsamone, e trovata nella libreria Vaticana: di diverso tenore la riferiscono l'istessi R. Pontefici, Nicolò III. e Lione IX.; d'altro modo Pier Damiano, Matteo Blastare, Ivone di Chartres, e Francesco Burfatto: ed altrimente la rapporta Alberico: in brieve sin a dodici, e più esemplari se ne leggon tutti infra loro varj e differenti. Ma se a cotali rapportatori furon ignoti i fatti di Costantino, e niente curaron d'Eusebio e degli altri Scrittori contemporanei, appo i quali d'un fatto sì strepitoso e grande evvi un profondissimo silenzio; almeno avrebbon dovuto disingannarsi dal solo Codice Teodosiano, e dalle costituzioni dello stesso Costantino, che in quello si leggono. Voglion comunemente costoro, che Costantino mentr'era in Roma nella primavera di quest'anno 324 avesse usata questa cotanta prodigalità con Silvestro, quattro giorni dopo il suo battesimo: ma certa ed indubitata cosa è, che Costantino in questi stessi supposti mesi del 324 mai in Roma non fu siccome colui, che di quel tempo trovavasi in Oriente tutto occupato nella guerra contra Licinio; la quale terminata con averlo sconfitto, e riportatane piena vittoria, è noto altresì, che passato in Tessalonica quivi si fermasse, ed in questi stessi mesi appunto di quest'istess'anno 324 non partissi da quella città: il che manifestamente si prova per due sue costituzioni, che nel suddetto Codice Teodosiano ancor si leggono: ciò sono per la l. 4. sotto il tit. de Naviculariis, la quale fu promulgata da Costantino in quest'istesso tempo mentre era in Tessalonica, e dirizzata ad Elpidio, sotto il Consolato di Costantino III. e Crispo III. che porta questa data: Dat. VIII. Id. Mart. Thessalonicae. Crispo III. et Constantino III. Coss. e per quell'altra sua famosa costituzione ove si prescrive la norma delle dispense dall'età così a maschi, come a femmine, che alquanto guasta e tronca fu inserita anche da Triboniano nel Codice di Giustiniano. Questa legge Costantino la fece quando in quest'istesso anno 324 era in Tessalonica, come narra Zosimo e porta la sua data: Dat. VI. Id. Aprilis Thessalonicae, Crispo III. et Constantino III. Coss. come emenda Gotofredo: e fu indirizzata a Lucrio Verino, il quale in quest'anno era Prefetto della città di Roma, com'è manifesto dalle parole della Notizia de Prefetti di Roma, ove si legge Crispo III. et Constantino III. Coss. Lucr. Verinus Praefectus Urbi: ond'è che scorrettamente si legga l'iscrizione di questa legge nel Codice di Giustiniano: ad Verinum P. Praetorio. Queste leggi convincono per favolosa non meno questa donazione, che il battesimo di Costantino per mano del Pontefice Silvestro. Nè dovean altri moversi per gli atti di questo Pontefice, i quali dallo stesso Baronio non sono ricevuti, ma riputati per favolosi: e favola certamente è ciò, che in essi si narra, che in quest'anno 324 fosse stato Prefetto di Roma Calfurnio, quando dalle date delle riferite leggi è manifesto, che fu Prefetto di quella città Lucrio Verino. Dovea più tosto movergli l'istoria d'Eusebio di Cesarea uom grave ed ingenuo, che fiorì ne' medesimi tempi e che i gesti di questo Principe minutamente descrisse: e dove fatti sì grandi e memorabili, se fossero veramente accaduti, egli non è credibile, che dalla diligenza ed accuratezza di sì fatt'uomo si fossero potuti tralasciare e trascurargli in un'istoria, che pochi anni dopo la morte di Costantino fu pubblicata alla luce del Mondo, e girava fra le mani di tutti, i quali con molto scorno e biasimo d'Eusebio avrebbon allora potuto rinfacciargli tant'ignoranza, e smentirlo ancora di ciò, ch'avea narrato d'essersi Costantino battezzato in Nicomedia negli ultimi giorni di sua vita, non già in Roma. Ma di ciò, ch'ora alcuni dubitano, non ne dubitaron certamente gli antichi Scrittori così greci, come latini. Teodoreto, Sozomeno, Socrate, Fozio, ed altri greci Autori scrissero, Costantino aver ricevuto il battesimo non già per le mani di Papa Silvestro in Roma, ma in Nicomedia, essendo per morire: e fra' Latini, S. Ambrogio, S. Girolamo, il Concilio d'Arimini pur tennero la medesima credenza. Quindi è che i nostri più gravi e dotti Teologi, ed i più diligenti Scrittori ecclesiastici, quali furon il Cardinal di Perrone, Spondano, Petavio, Morino, e l'incomparabile Arnaldo contra il sentimento del Baronio, come favoloso riputarono ciò, che volgarmente si crede del battesimo di Costantino finto in Roma per mano di Silvestro romano Pontefice in quest'anno 324 quattro giorni prima della favolosa donazione. Ciò che dovea bastare ad Emanuello Schelstrate, e non ricorrere, come fece, a quella strana ed infelice difesa, che Costantino battezzato già in Roma, fu da Eusebio fatto ribattezzare in Nicomedia; poichè anche se si volesse concedere, che Costantino nell'ultimo di sua vita inchinasse alla dottrina d'Arrio, e de' suoi seguaci; non avevano però gli Arriani, in questi primi tempi del lor errore, usato mai di ribattezzare i Cattolici, che passavano nella loro credenza, come ben pruova Cristiano Lupo: nè se non molto da poi S. Agostino intese tal novità, che alcuni Arriani pretendevan di fare, di che egli, come di cosa assai stravagante e nuova, cotanto si maravigliava e biasimava. Nè dovrà sembrar cosa strana (quantunque questo sia uscire alquanto dal nostro cammino) che Costantino, cotanto zelante della cristiana religione, e che nell'anno seguente 325 volle esser presente al gran Concilio di Nicea, ove diede l'ultime prove della sua pietà, operasse, essendo ancor Catecumeno, tanti pietosi e generosi atti verso questa sua novella religione. Niuna stranezza apparirà se si distingueranno i tempi, ne' quali Costantino abbracciò questa religione, da quelli del suo battesimo; e se si considererà il costume, che correva allora tra' Grandi di differire il battesimo fin al tempo della lor morte. Costantino non molto dopo la sconfitta di Mazenzio, assai prima dell'anno 324 in cui si narra il suo battesimo in Roma, avea abbracciata la religion nostra, dando segni manifestissimi di se, e del suo amore e beneficenza inverso di quella. Prima di quest'anno 324 molte costituzioni aveva promulgate attinenti o all'immunità de' Cherici da' pesi civili, o alla costruttura de' suoi tempj, o alla destruzione ed abbattimento di quelli de' Gentili; ed eziandio quella cotanto rinomata sua costituzione, per la quale fu conceduta licenza alle Chiesa di potere acquistare robe stabili, ed a tutti data libertà di poter lasciare a quelle nei loro testamenti ciò che volevano, onde nacque il principio delle loro ricchezze, e massimamente della Chiesa di Roma sopra ogn'altra, non fu altrimente promulgata da poi, ma tre anni innanzi, che seguisse in Roma questo favoloso battesimo. Non dee adunque sembrar cosa strana, se negli anni seguenti ancor Catecumeno, proseguisse con tenor costante a favorirla, e di tante prerogative e pregi adornarla. Era ancor in questi tempi costume, come s'è accennato, che i maggiori e più illustri personaggi dell'Imperio, ancorchè abbracciassero questa religione solevan però per pessima usanza differire il battesimo fino a' maggiori loro pericoli di vita, e quando s'esponevan a qualche dubbia e perigliosa impresa. Nè tal costume si spense ne' tempi di Costantino, o de' suoi figliuoli, ma durò molto da poi anche nel regno degli altri suoi successori, quantunque vi fossero dei Principi per altro religiosissimi. Così leggiamo di Teodosio il Grande, il qual ancorchè abbracciasse la religione cristiana e chiari segni della sua pietà mostrasse, visse però sempre Catecumeno, e non prima volle battezzarsi, se non quando gravemente infermato in Tessalonica l'anno 380, vedendosi in pericolo, fece chiamare a se il Santo Vescovo Acolio, da cui fu battezzato, e non meno la salute dell'anima, che quella del corpo recuperò. Valentiniano II. Principe, di cui soleva dirsi, che siccome tutto il male nel suo Regno a Giustina sua madre dovea attribuirsi, così a lui tutto il bene, come ben si conobbe dopo la costei morte; essendo ancor Catecumeno, non prima, che quando fu nel procinto d'andare a combatter co' Barbari, sollecitò S. Ambrogio a venire prestamente a battezzarlo. Ma mentre quel santo Vescovo traversava l'Alpi per rendersi a Vienna, ove questo Principe dimorava, intese la sua funesta morte: poichè Arbogasto mal contento d'essergli da lui stato tolto il comando dell'esercito, guadagnatosi alcuni suoi Ufficiali, e gli eunuchi del palazzo, lo fece strangolar nel proprio letto mentre dormiva la notte del Sabato a' 15 Maggio dell'anno 392, vigilia di Pentecoste. Il qual funesto accidente meritò esser compianto per una dotta e molto elegante orazion funebre di quel Vescovo, che recitò nelle di lui magnifiche e pompose esequie: nella quale mostrò, che il battesimo desiderato da questo Principe, e domandato con tant'ardore, avealo purificato di tutte le macchie de' suoi peccati, e portatolo al godimento delle delizie d'una vita eterna. È nota parimente l'istoria di S. Ambrogio stesso, a cui non prima, che fosse promosso al Vescovato di Milano, fu dato il battesimo. E narrasi ancora di quel famoso e celebre Benevolo primo Cancelliere dell'Imperadrice Giustina, che per non istromentar quell'editto, per cui davasi licenza agli Arriani di professar liberamente il lor errore, fece quel sì generoso e nobil rifiuto, e ritiratosi dalla Corte, volle allora ricevere il battesimo, ch'avea, secondo il costume dei grandi, agli ultimi tempi differito: e molti altri esempj potrebbon qui recarsi, tratti dalle profane e sacre storie. E di questo costume è da credersi, che intendesse il nostro Torquato, e che fosse ancor in Etiopia nel Regno di Senapo, allorchè favoleggiando di Clorinda e del suo differito battesimo cantò:

A me, che le fui servo, e con sincera Mente l'amai, ti diè non battezata; Nè già poteva allor battesmo darti, Che l'uso nol sostien di quelle parti.

Credevasi, che differendosi il battesimo fin agli ultimi momenti di vita, venivan perciò a sfuggirsi i cotanti rigori delle pubbliche penitenze, che di que' tempi usava la Chiesa co' Cristiani penitenti: e che fosse di maggior accertamento per la lor salute eterna prolungarlo, poichè potendo ciascuno esser ministro di questo Sacramento, eziandio l'Infedele, il Neofito, ed ogni vil femminetta, ed essendo la sua materia sempre presta, qual è l'acqua, e la sua forma molto spedita e facile, consistendo in poche e semplici parole: rado, o non mai al più disgraziato e sfortunato uomo del Mondo potrebbe accader morte così improvisa, che non vi fosse un poco di tempo da poter esser tocco da sì salutifere acque, le quali in un istante per gl'infiniti meriti di Cristo, rendendolo mondo di tutte le sozzure in questa mortal vita contratte, lo sbalzavan con certezza nella felicità d'un'altra immortale ed eterna.

Ma avvedutisi da poi, che per un sì reo costume si dava occasione a gli uomini di menare una vita licenziosa e prona ad ogni enormità e scelleratezza: e fatti ancora dall'esperienza accorti, che molti così ne morivano, come vissero; e che sovente il caso potea esser così improviso, che mancassero questi ajuti, nel che terribile dovette sembrar loro il funesto accidente di Valentiniano; cominciaron per tanto i Padri della Chiesa a declamare contro a questa perniziosa usanza: onde Basilio, col suo fratello Gregorio di Nizza, fecero tutti i loro sforzi in questo medesimo secolo, per abolire cotal pericoloso costume; e S. Ambrogio, che l'avea seguito, dopo aver compianto il suo infortunio, si diede a combatterlo, e fece quanto potè per isradicarlo, declamando spesse volte e fortissimamente contra questo abuso; tanto che alla fine fu dalla Chiesa affatto discacciato, nè giammai più tollerato, onde oggi il suo contrario lodevolmente si pratica.

Ma ritornando là, onde siam partiti, queste nostre province nel Regno di Costantino, ad altri non furon sottoposte, nè donate. Da questo medesimo Principe dopo l'anno 324 come prima, e finchè visse furon dominate e rette, egli n'ebbe la cura ed il pensiero, commettendo a' Prefetti d'Italia, a' Consolari, a' Correttori, ed a' Presidi il governo ed amministrazione di quelle; e moltissime leggi a costoro dirette stabilì, per le quali furon molti provedimenti dati intorno alla retta lor amministrazione. Così spedito che fu Costantino dal Concilio Niceno, e dagli affari d'Oriente, tornò nell'anno seguente 326 per la Pannonia in Italia, ed in Aquileja fermossi; ove nel mese d'Aprile di quest'anno promulgò alcune costituzioni; indi passato in Milano, ne promulgò dell'altre nel mese di Luglio; e finalmente nello stesso mese venuto per l'ultima volta a Roma, lungo tempo vi si trattenne con Elena sua madre, la quale in questo medesimo anno 326 del mese d'Agosto tra gli abbracciamenti del figliuolo, e de' nipoti quivi trapassò e fu sepolta. In questo anno stesso molte leggi in Roma furon da Costantino promulgate intorno all'annona della medesima città; e per altre bisogne di queste province d'Italia molte cose furon da questo Principe stabilite, infino che tornato in Oriente, al ristabilimento del nuovo Imperio, e di Costantinopoli volse ogni suo pensiero.

Ma non per questo si trascurarono le cose d'Occidente, e di queste nostre province, le quali commesse a' Prefetti d'Italia, e più immediatamente a' Consolari, Correttori e Presidi, furon così da Costantino, come dagli altri Principi suoi successori fino a Valentiniano III. come si è veduto, rette e dominate: tanto è lontano, che altri avessero avuto sopra di quelle diritto, o superiorità alcuna.

Favola dunque dee riputarsi ciò, che di Napoli a questo proposito si narra, ch'essendo in questi tempi dentro a' confini della Campagna, ed al Consolare d'essa provincia sottoposta, fosse stata da tal donazione solamente eccettuata, essendo piaciuto a Costantino per se ritenerla, per quella graziosa cagione, che dovendo fare frequenti e spessi viaggi da Roma alle parti orientali oltramarine volesse serbarsi una città, nella quale potesse tra via fermars'un poco, e dagli incomodi e strapazzi del viaggio ristorarsi. Più favolosi ancora sono e più inetti gli altri racconti de' viaggi fatti da questo Principe con Papa Silvestro in Napoli: e quel che più degno si fa di riso è, ch'entrambi si fossero imbarcati nel porto di questa città, ed andati insieme in Nicea metropoli della Bittinia, e quivi fossero intervenuti a quel gran Concilio: e ritornando poscia Costantino in Italia nell'anno 326 si fosse fermato in Napoli, ove fu di nuovo accolto dalla Repubblica napoletana con grandissimi segni di stima e di giubilo; e che avesse quivi tante chiese edificate, e cento altre seccaggini, delle quali hanno sin al vomito ripieni i lor volumi: tanto che coloro, che considerano sì favolosi racconti, e che questo Principe nel passare in Italia, non per altra strada vi si conducea, che per la Pannonia; e che se pur voleva di Roma portarsi nelle parti orientali per viaggi marittimi, avea pronta e spedita la via Appia, che fu continuata fin a Brindisi, ove potea con più agio imbarcarsi; tantochè il P. Caracciolo, il quale ci vuol render verisimile lo sbarco di S. Pietro a Brindisi, non per altra cagione si mosse a crederlo, se non perchè questa era la strada più battuta da coloro, i quali per viaggi marittimi volean o da Roma portarsi in Oriente, o quindi a Roma, per queste cagioni ragionevolmente dubitano, se mai Costantino avesse veduta Napoli, tanto è lontano, che quivi fosse dimorato, e tante chiese avessevi edificate, come se non per altra cagione, che per fondarvi tempj sacri egli vi si conducesse; quando al contrario, qualche vestigio di greca struttura, che vediamo ancor rimaso in alcune chiese di questa città, non all'età di Costantino M. dee riportarsi, ma a' tempi più bassi degli altri Costantini Imperadori d'Oriente verso gli ultimi tempi de' Greci, quando il Ducato napoletano era a gl'Imperadori Greci sottoposto: di che ci tornerà occasione a più opportuno luogo di ragionare. Ed il P. Caracciolo stesso non potè negare, che molte Chiese, le quali s'attribuiscono a Costantino M. fossero state erette in Napoli da altri in tempi posteriori; ancorchè persuaso egli, che questo Imperadore fosse stato con Elena sua madre in Napoli, abbia creduto, che quella di S. Restituta, e l'altra de SS. Apostoli fossero state da lui edificate: ciò che non potendo provare colla testimonianza d'Autori contemporanei, ricorre alla tradizione, e ad Anastasio, ed a gli altri Scrittori dei tempi più bassi.

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