GIUSEPPE PARINI (1729-1799)

CONFERENZA

DI

Guido Mazzoni.

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Signore e Signori,

Tocca a me l'onore pericoloso d'iniziare quest'anno le Letture fiorentine nella sala che Luca Giordano adornò tutta di fiori e che ora adornate voi, o signore; nella sala che udì già un tempo i discorsi degli accademici della Crusca e accolse poi un congresso di scienziati, e dove ora state ad ascoltarmi voi, o signori, che avete fama ben meritata di essere per un conferenziere l'uditorio ch'ei possa più desiderare o più temere. Ciò farebbe maggiore in me la trepidazione se non avessi ormai quattro volte sperimentato negli anni scorsi la vostra benevolenza, la vostra indulgenza. E quest'ultima chiedo ancora una volta per me; la benevolenza chiedo, a nome de' signori del Comitato, per l'istituzione loro, che, proponendosi così nobile intento, ha già raccolto tanto favore.

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Giuseppe Parini aveva nove anni quando il padre suo, umile negoziante di sete, volendolo tirar su per gli studii, lo recò a Milano e lo allogò in casa d'una zia. “Addio, monti sorgenti dalle acque!„ avrebbe certo sospirato allora quel ragazzo d'ingegno così promettente, se Alessandro Manzoni, che fu poi il massimo discepolo del Parini, già avesse consacrato all'arte, con l'eloquenza dell'addio di Lucia, monti ed acque ben poco distanti dalle colline di Bosisio e dal lago di Pusiano. Il ragazzo, cui aveva insegnato a leggere e scrivere il prete del borgo nativo, è probabile non ripensasse allora, partendo, il tenue passato, ma che vedesse con gli occhi della fantasia le vantate meraviglie della sterminata ed opulenta Milano.

Erano gli ultimi del 1738, e Milano, sgombrata da Carlo Emanuele di Savoia “quel brutale d'Italia„, venuta in signoria di quel placido Carlo VI che doveva morire d'indigestione, si preparava ad accoglierne la figlia, Maria Teresa, sposa novella di Francesco di Lorena. E proprio quando il Parini arrivava, nel fervore de' preparativi, nello studio dell'etichetta, si facevano questioni grandi: chi doveva andare fin a Mantova a ossequiare i principi? chi si doveva invitare alle feste? le dame dovevano presentarsi a Corte con l'adrienne o col mantò? Le due prime questioni [277] furono risolute presto; a Mantova andò il Vicario di provvisione e sei patrizi; sei altri, col titolo onorifico di Bastoni, ebbero a compilare l'elenco degli invitati: quanto all'adrienne e al mantò, bisognò indagare cautamente l'animo della maggiordoma maggiore dell'Arciduchessa, che indagò l'animo dell'Arciduchessa; e, a dispetto degli avari mariti, a gioia delle splendide dame, venne la risposta: il mantò!

Quel povero ragazzo di campagna che cominciava a frequentare, vestito da abatino, le scuole de' Barnabiti, non seppe o non si curò di sì fatte controversie; ma era certo per le strade, in vacanza, quando il 2 maggio '39 i principi, sorridendo al popolo dal grande carrozzone dorato, entrarono pomposamente in Milano; e potè forse avvicinarsi al corteggio e ammirarlo da presso e guardare la futura padrona, la fiorente Maria Teresa, perchè le milizie schierate per contenere la folla e presentare l'arme, sorprese da un acquazzone, si erano sbandate! La sera, grande illuminazione di tutta la città; e chi sa non fosse anche lui tra i monelli che (come narra la Gazzetta d'allora) “girando all'intorno con semplici rime, dettate dal naturale genio e piacere, come dall'affezione succhiata col latte verso la cesarea stirpe, invitavano i meno pronti ad esporre i lumi con abbondanza„. Furono le prime feste, le prime [278] dame, che vide co' suoi grandi e vivacissimi occhi neri quel lungo, gracile, irrequieto abatino; e cominciò ad assorbire inconsapevole l'amore del lusso, delle eleganze, della bellezza.

Mentre egli cresceva, e proseguiva a studiare, e cominciava a dar lezioni, i tempi si facevan più quieti; il governo imperiale, interrotto per pochi mesi dai Gallo-Ispani, si assodava in Lombardia entro quella pace di quarantotto anni che ci diè tempo d'incipriarci e d'imbellettarci, ma anche di guardare noi stessi allo specchio, vergognare di noi stessi, iniziare la conversione dell'animo nostro e la coscienza nazionale, che i Francesi del '96 ci aiutarono, sia pur brutalmente, a recuperare intiera. Milano si faceva a mano a mano più grande, più bella, più polita, negli agi e ne' diletti crescenti della civiltà; e, come accade, ogni moto di quel risveglio affrettava altri moti. Passava su tutti un'aria tiepida, quasi autunnale, che affrettava la piena fioritura, lo spampanamento de' vizii, e spargeva intanto i semi della primavera ventura. Quel che fino allora non era sembrato di ribrezzo o di schifo o di danno, lamentavano molti, e chiedevano fosse tolto via dalle leggi e dalle costumanze. La critica esercitava timida l'officio suo buono, affilava le armi per l'officio cattivo; e il governo le porgeva orecchio, l'aiutava, spesso incitava per preparare alle [279] riforme l'animo neghittoso o restìo della moltitudine. I libri, le fogge, che cominciavano a venir da Parigi, anzi che da Madrid, vivaci, eleganti, trasformavano rapidamente le idee e le sembianze di quella parte della società che era allora la sola che importasse, la sola che si pavoneggiasse, l'aristocrazia, distinta dagli altri ordini anche per le vesti.

E il Parini giovinetto strabilia al passare rovinoso delle carrozze dalle alte ruote con dinanzi i candidi lacchè impennacchiati che sgombrano con la mazza la via o agitano fiaccole ardenti; ammira le seriche e ingemmate e incipriate dame quando ne balzano giù snelle rifiutando la mano che offre loro il cavaliere servente; invidia forse, per un momento, costretto come è a faticare su' libri de' classici, quel giovin signore nel cui palazzo gli accade veder entrare ogni mattina i maestri di violino, di canto, di ballo, o ch'egli a caso ha ascoltato tanto facile e colto parlatore sopra ogni scienza ed ogni arte. Gli additano i teatri, gliene descrivono la magnificenza quando son tutti pieni di gentiluomini e gentildonne, e l'orchestra vi dà con le melodie espressione nuova alle ariette del Metastasio, e lo spettacolo degli scenarii, dei cori, delle comparse, fa più grandi e fantastiche le peripezie di que' drammi. Gl'insegnano il Ridotto, che è tutto strepito e luce. [280] davanti ha carrozze e staffieri affaccendati, e invita per l'ampio e ornato scalone a salire: lassù, dicono, sopra i verdi tappeti scorre a fiotti l'oro. Certo va qualche volta al Corso; guarda pariglie e livree, gareggianti di lusso; chiede chi sia quella o questa leggiadrissima dama, chi sia quell'elegante signore; e ode illustri casati, che gli risvegliano memorie gloriose di avi, o forti o sapienti, di cui legge nelle storie le imprese e i meriti.

È giovine, ha l'animo ardente, pronta la fantasia: oh quella società come deve sembrargli felice; come lontane da lui, e per ciò più desiderabili, quelle fanciulle! Rientra nella povera cameretta, avvilito, scorato; prende di malavoglia un libro di scuola, lo scorre distratto. Orazio e Virgilio, che guidarono pietosi la sua mano e gli si offersero consolatori, l'han presto liberato dalle vane e pericolose visioni; lo accendono di sè, lo inspirano: ed eccolo irrequieto andar su e giù per la cameretta, non più povera agli occhi suoi, ma raggiante: e il cuore, mentre egli tenta i primi versi, gli batte forte per una confusa, incerta, misteriosa idealità ch'egli vorrebbe determinare, esprimere, e ancora non può, ma che sente tumultuare entro sè, e del sentirla gioisce. Sarà poeta.

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